Lo sblocco parziale dello stallo sull’ipotesi di “price cap” sulle materie prime energetiche è un’ottima notizia per gli europei, forse meno per l’istituzione Ue. Perché è stato necessario, in ultima analisi, un pronunciamento vigoroso del G7 – cioè degli Usa – per piegare le resistenze interne finali di quelli che erano ormai emersi in piena luce come gli euro-pescecani del petrolio e gas: l’Olanda (Paese fondatore della Ue) e la Norvegia, il Paese che esprime il segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg.
Già due settimane fa il Financial Times aveva sollecitato con toni tutt’altro che teneri Oslo a dismettere i panni del puro operatore di mercato e a vendere gas e petrolio agli alleati occidentali pro-Ucraina a prezzi calmierati. In parallelo, il quotidiano della City londinese – dove l’inflazione è già a quota 13% – ha moltiplicato gli appelli ai leader europei a serrare i ranghi, bloccando i tentativi di Mosca di dividere il Continente, facendo leva su opinioni pubbliche spaventate. Destinataria specifica del pressing era con tutta evidenza l’Olanda: la piattaforma di scambio all’ingrosso del gas in Europa. Quella su cui l’ormai mitico “prezzo TTF” ha toccato pochi giorni fa il picco di 346 euro, dieci volte i valori di un anno fa.
Mentre solo quarantott’ore fa il cancelliere tedesco Olaf Scholz ha aperto sul quella che è da sempre la proposta del premier italiano Mario Draghi – anzitutto sul gas – FT ha calcato ulteriormente la mano. Un’analisi intitolata “La crisi dell’energia e il trasferimento internazionale di ricchezza” ha avuto al suo cuore una tabella su “vincenti e perdenti dello choc energetico”. I primi 20 paesi Ocse sono stati riclassificati per trend di import, export e saldo commerciale negli ultimi quattro mesi: tutte grandezze oggi fortemente condizionate dai flussi di prodotti energetici. Capoclassifica è la Norvegia con un aumento annuo dell’export vicino all’80% trainato da commodities energetiche e quasi tutto “a saldo netto”.
In seconda posizione – con un saldo in progresso del 10% circa – la Cina. Poi Indonesia, Canada, Australia, tutti in positivo. Gli Usa in sostanziale pareggio. Subito dopo il primo paese europeo: l’Olanda, con un saldo leggermente negativo ma l’export in ascesa vicino a un +20%. A seguire, in area Ue, si difendono Francia e Polonia, mentre la situazione diventa problematica per Spagna, Germania (con export fermo) e Italia (trend negativo a due cifre). Per la Gran Bretagna è “profondo rosso”, assieme a Brasile, Giappone, Sudafrica e India.
Sullo sfondo di queste cifre quali prospettive reali di tenuta e manovra avrebbe la coalizione anti-russa promossa dagli Usa in Germania lo scorso marzo, sovrapponendo il perimetro Nato a quello Ue? La risposta implicita nel preannuncio di ieri – per ora limitato al petrolio – era che il fronte occidentale era a serio rischio di sfaldamento. Che anche il passaggio elettorale in un Paese medio come l’Italia avrebbe potuto trasformarsi in un detonatore geopolitico. Che stavolta la tradizionale frattura polemica fra Paesi “frugali” e “mediterranei” della Ue presenta contorni rovesciati: sono Roma, Parigi, Madrid in collera con L’Aja o Berlino e in ultima istanza con Bruxelles, per egoismi nazionalistici e debole capacità di governo della crisi. Una stessa situazione critica è chiaramente temuta nella cornice Nato: entro cui si colloca Washington, promotrice della “guerra lunga” contro Vladimir Putin, non solo per difendere Kiev.
Joe Biden per primo ha evidentemente compreso che la “prima linea” Ue poteva sgretolarsi nell’imminenza delle elezioni midterm di novembre oltre Atlantico. Un’Europa impoverita, impaurita, arrabbiata, avrebbe potuto addirittura rivoltarsi contro l’America che ha deciso una “guerra delle sanzioni” i cui costi ricadono quasi esclusivamente su imprese e famiglie europee. L’amministrazione dem sembra ora aver battuto un colpo più realistico e concreto dopo operazioni arrischiate e mediatiche come il viaggio a Taiwan di Nancy Pelosi (forse in arrivo a Roma come super-ambasciatrice Usa “plenipotenziaria” sul fronte est-europeo).
In attesa di conoscere i dettagli di quello che finora è un semplice “statement” del presidente della Commissione Ue, Ursula von der Leyen, sembra tuttavia già possibile parlare di buona giornata per Draghi. Il tetto al prezzo del petrolio – anche in termini segnaletici su una possibile “escalation” a quello del gas – si profila come un suo successo politico su entrambi i lati della delicatissima interfaccia atlantica. Uno sviluppo che promette di non essere affatto neutrale sulla campagna elettorale italiana.
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