Lo showdown fra Matteo Renzi e il premier Giuseppe Conte è iniziato nel Consiglio dei ministri di martedì notte, quando Teresa Bellanova (capodelegazione Iv nell’esecutivo) ha sbottato contro il titolare del Mef, Roberto Gualtieri: “Non sei tu il padrone del Recovery Fund”. Secondo alcuni resoconti la ministra delle Politiche agricole sarebbe stata “zittita” dal premier, ma che le cose siano andate in modo diverso lo si è intuito già poche ore dopo. Ieri mattina Gualtieri, infatti, si è subito premurato di un contatto chiarificatore e distensivo con Bellanova. La quale – ad ogni buon conto – nel tardo pomeriggio era a fianco di Renzi e della collega Elena Bonetti ad annunciare il ritiro dal Conte 2. E in conferenza stampa il leader Iv ha parlato di tre nodi irrisolti. Il primo è lo stile di governo di Conte, secondo Renzi ormai fuori dai canoni della democrazia costituzionale. Gli altri due riguardano invece la gestione del Recovery Fund per il rilancio dell’economia e il ricorso al Mes per finanziare l’emergenza sanitaria. Due dossier-governo, certo, ma anche due competenze dirette del Mef. E si è guardato dal citare un quarto fronte dolente, l’ex premier: lo stallo di tutti i grandi dossier finanziari sul tavolo di Gualtieri, da Autostrade ad Alitalia, da Mps alla Rete Unica. Ma ci pensa – ogni giorno da settimane – il gossip politico-mediatico a mettere anche questo alla voce “passività” nel bilancio del Conte-2: fra le radici di una crisi di governo “che viene da lontano”.
Al pari di Conte, Gualtieri è divenuto – in parte giocoforza – la personalizzazione di un problema politico, di governo. L’emergenza Covid è e resta epocale, di proporzioni mai viste. Ha potuto giustificare ogni forzatura istituzionale e ogni fuga leaderistica da parte del premier. Può essere chiamata da Gualtieri in qualsiasi momento a scagionare le infinite “cose che non vanno bene” nella gestione del fisco e dei ristori, nei ritardi o nelle sbavature statalistiche sui grandi dossier. Ma dopo 16 mesi di governo e 10 di pandemia, Gualtieri – come Conte – non è riuscito ad allontanare sospetti e accuse di insufficienti capacità di risposta o di eccessive preoccupazioni di parte nell’impostazione di una strategia di contrasto economico all’emergenza.
Quando Bellanova ha attaccato Gualtieri sul Recovery, come minimo gli ha rimproverato un ritardo oggettivo nella messa a punto del Piano nazionale di resilienza e rilancio. Ha avuto buon gioco nel rinfacciargli una qualità inequivocabilmente non alta del dossier italiano in partenza per Bruxelles, così diverso dall’ambizioso piano Macron approntato già in ottobre. E non è solo l’opinione di Iv; né pesa soltanto l’opaco tentativo di affidare la gestione dei fondi europei a una task force di burocrati. C’è la firma di Gualtieri sotto la manovra 2021, bocciata da tutti gli esperti come coacervo di provvedimenti assistenzialistici e clientelari, senza “visione”, senza attenzione a deficit e debito: cioè a quelli che rimangono profili critici per l’Azienda-Italia nella Ue, allorché si esaurirà il sostegno artificiale della Bce sui BTp.
È il Pd “marxista” di Gualtieri – e del suo viceministro Antonio Misiani – quello che lascia correre voci su forti interessi “asiatici” per i titoli governativi italiani; ma anche ipotesi di patrimoniale punitiva verso i ceti medi del Nord. È il Tesoro l’azionista strategico della Cdp, schierata in contemporanea su tanti fronti insidiosi, a cominciare dal riacquisto forzato di Autostrade. È Via XX settembre l’azionista di maggioranza di Mps, che dovrebbe essere riprivatizzato al più presto ma che nessuno vuole come partner.
È per questo che nessuno si è stupito quando, nei giorni scorsi, fra i ballon d’essai sul rimpasto possibile del Conte 2, sulla roulette ha cominciato a rotolare anche la pallina-Gualtieri. Renzi ha smentito di aver chiesto quella poltrona, quello “scalpo”. Meno sicuro che invece qualcuno non gliel’abbia offerta come “piano B” rispetto alla sostituzione tranchant di Conte con Mario Draghi o con Carlo Cottarelli. È comunque evidente che l’ex presidente della Commissione affari economici e monetari del Parlamento Ue – richiamato a Roma da Romano Prodi e Massimo D’Alema come suggello al “ribaltone Orsola” dell’agosto 2019 – ha perso parecchio del suo smalto. Dopo essersi conquistato un seggio al parlamento italiano alle suppletive del collegio romano che nel 2018 aveva eletto Paolo Gentiloni, non ci sarebbe da stupirsi se Gualtieri – nato come quadro del Pci romano e storico alla Sapienza – riprendesse il filo di rumor già abilmente seminati: quelli che lo vorrebbero candidato sindaco di Roma, alla scadenza naturale di giugno o in autunno. Per il Pd o per una coalizione allargata a parte di M5s e a segmenti centristi. Contro Virginia Raggi e contro un centrodestra capitolino egemonizzato da Giorgia Meloni.