Cinque giorni per percorrere un sentiero strettissimo e tutto in salita: ricomporre la maggioranza sbrindellata e convincere Mario Draghi a non far ritorno a Città della Pieve. Roba che il Galibier al Tour de France è molto più facile da scalare.
Per fare il punto della situazione partiamo dalla fine, dalla noticina dell’ufficio stampa del Quirinale che a tarda sera sottolinea che fra il premier e il Capo dello Stato si è registrata una totale identità di vedute. Evidentemente le voci di un dissidio profondo fra i due giravano tanto vorticosamente da dover essere smentite.
Se prendiamo per buona questa versione ufficiale (si potrebbe dubitarne), va letta in chiave di sostanziale condivisione la scelta di Mattarella di parlamentarizzare la crisi, respingendo le dimissioni di Draghi e rinviandolo alle Camere, “sede propria” per fare una valutazione della situazione. Resta da capire se Draghi abbia accettato per pura cortesia nei confronti del presidente della Repubblica, o perché giudichi la ricucitura davvero possibile.
Non è che dalle parti del Colle ieri sera si spargesse ottimismo. Tutto il contrario. Si registrava lo stato d’animo opposto di Draghi, davvero esasperato dalle bizze della sua maggioranza, tanto vasta quanto litigiosa. Ma di accettare le dimissioni di un governo che aveva appena incassato una comoda fiducia, con 172 senatori favorevoli e appena 39 contrari non si poteva proprio parlare.
Nei due colloqui con Draghi è facile immaginare che Mattarella abbia usato l’artiglieria pesante. Richiami al senso di responsabilità di fronte alle emergenze che sono di fronte al paese: Pnrr da attuare, inflazione, energia che scarseggia, pandemia, guerra in Ucraina. Abbandonare sarebbe diserzione. Ma per il premier il tasso di turbolenza nella coalizione aveva superato ogni limite di tollerabilità.
Ora decisivo sarà l’atteggiamento dai partiti. Per proseguire Draghi pretende un pentimento quasi totale. Ma i calcoli delle forze politiche potrebbero essere differenti. Quelli dei grillini, prima di tutto, con Conte che sembra aver voluto osare la mossa disperata dell’affossamento del governo per risalire la china di sondaggi catastrofici. E se i pentastellati vanno all’opposizione, impensabile che la Lega lasci solo a loro il dividendo di aver abbandonato la nave di Draghi. A chi gli chiedeva se fosse immaginabile andare avanti con l’attuale premier, il vicesegretario del Carroccio Fontana ieri sera rispondeva: “Dipende da quel che dirà in parlamento, e comunque la vedo dura”. Persino dentro il Pd sembra emergere una fronda pro Conte che va dal ministro Orlando sino a Boccia e Provenzano, convinti che sarebbe meglio andare al voto adesso, prima che il rapporto con i 5 Stelle sia consumato del tutto. L’opposto di Letta, che sembra aver chiuso con il “campo largo”, seppure a malincuore.
Draghiani a oltranza, oltre al segretario dem, sono Di Maio, Berlusconi, Toti, Calenda e Renzi. Ma tutti insieme non bastano per garantire una maggioranza, che comunque non sarebbe più di unità nazionale, come costruita da Mattarella nel febbraio dello scorso anno. Sarebbe politica, moderatamente di centrosinistra.
L’odore di elezioni si avverte sempre più intenso nell’aria, e lo stesso Draghi potrebbe non avere alcun interesse nel rimanere, per essere rosolato a fuoco lento. Ne va di quella credibilità internazionale tanto faticosamente costruita nel corso di una vita.
Il pallino rimane comunque nelle mani del premier. Il finale della storia dipenderà da quel che ha in testa. E dal discorso che farà in Senato. Se dovesse fare uno scarno programma di fine legislatura capace di volare alto, sarebbe difficile dirgli di no. Al contrario, se volesse regolare i conti, basterebbero poche parole urticanti, materia in cui Draghi eccelle, per porre la parola fine alla legislatura, aprendo i problema della gestione degli affari correnti, che pare non sia interessato a fare.
Nel frattempo, volerà lunedì ad Algeri per parlare di gas. E lo farà ancora nella pienezza dei suoi poteri. Poi si vedrà. Le sorti del Paese rimangono appese a un filo. E ai voleri di Draghi, non a quelli di Mattarella.
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