Le travagliate vicende di questi giorni, così intessute di questioni politiche e di sottigliezze tecniche, non sono di facile lettura. Occorrerebbe vedere la fine e, soprattutto, vedere come uscirà il Paese da questa estate, con tutte le minacce che si affacciano all’orizzonte, che non è certo il caso di rielencare in questa sede.
Uno degli elementi che hanno fatto deflagrare la crisi si è consumata nell’ambito di una partito dalle molte anime e dagli incerti destini: la spaccatura del Movimento 5 Stelle tra le due linee ha portato ad uno scontro interno che ha messo in evidenza quanto l’idea di un governo di unità nazionale fosse funzionale ancora una volta a far confluire “tutti” verso uno scopo comune che non è quello di una unità sostanziale, ma ancora una volta strumentale all’esercizio del potere.
Un Presidente del Consiglio che ha fatto proprio di questa “unità nazionale” la bandiera del suo governo non ha potuto passare indenne dal travaglio e, enfatizzandone il senso, ha perso uno dei motivi di permanenza nella carica, quello di essere uno ma sostenuto da tutti, forse l’unica condizione che ha permesso ad una personalità del calibro di Draghi di accettare un incarico tanto gravoso.
Vi sono poi elementi strutturali da considerare: il sistema parlamentare non ha nulla del sistema presidenziale. La sua legittimazione deriva direttamente dal Parlamento che, dando la fiducia, consente al Governo di agire. Ma è un Parlamento che ha perso nel tempo gran parte delle sue prerogative e che ha mal tollerato il susseguirsi delle crisi, le quali hanno di necessità concentrato il potere negli esecutivi. Il disallineamento tra chi conferisce il potere e chi lo esercita ha finito per funzionare se non al contrario almeno come mera successione di formalismi: il Parlamento che dà la fiducia non sceglie, fedele al mandato popolare, ma ratifica, talora senza neppure la piena consapevolezza dei motivi che sostengono il suo pur imprescindibile intervento.
Così, un partito in crisi – che fa venir meno “l’unità nazionale”, vera o presunta che sia – e un Parlamento che poco pesa negli equilibri del potere, fanno si che quanto aveva fin qui funzionato ora non funzioni più. Prova ne sia che il rapporto tra Parlamento e Governo si rompe (o pare rompersi, lo vedremo) benché i numeri della fiducia siano abbondantemente presenti, ma si rompe solo per la volontà del Governo, che vede venir meno la condizione per cui tale incarico è stato accettato.
Vedremo come finirà questa storia. Essa, al momento, mette bene in luce i cambi di prospettiva che si sono costruiti nel tempo, emergenza dopo emergenza, governo tecnico dopo governo tecnico, uomini soli al comando dopo uomini soli al comando e via dicendo.
Così, un vertice istituzionale riceve dimissioni, non le accetta, rimanda il Governo in Parlamento ma con il fondato sospetto che neppure questo riuscirà a tener in piedi un Governo che parrebbe indispensabile al Paese. Contro la volontà di chi ritiene chiusa la propria esperienza di governo non è facile inventare ostacoli istituzionali: occorre solo sperare che la crisi rientri (come, solo pochi possono saperlo) e aspettare il domani.
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