L’opzione numero uno rimane la stessa: aggregare una pattuglia di “volenterosi”. Come se il voto del Parlamento non fosse stato un pericoloso segnale d’allarme, Giuseppe Conte persegue la strategia di chi tira dritto. Lo scontro con Matteo Renzi è totale. Le parole dette alle Camere prima della doppia fiducia non sono state taglienti come quelle scagliate un anno e mezzo fa contro l’altro Matteo, il leghista Salvini, ma l’atteggiamento del presidente del Consiglio (che ha dietro la regia del portavoce Rocco Casalino) è il medesimo: porta in faccia dopo la rottura anche se la strada è tutta in salita. Quando cadde il suo primo governo, Conte ebbe la fortuna di trovare Renzi che inventò la nuova formula e fece risorgere il dimissionario. Ora invece il premier non ha chi gli tolga le castagne dal fuoco.



Che la situazione sia paralizzata, lo dimostrano le voci secondo le quali la relazione del guardasigilli sulla giustizia in Italia potrebbe slittare. Ora si parla di andare alla Camera mercoledì e al Senato giovedì: il calendario sarà deciso martedì dalle conferenze dei capigruppo. Guadagnare anche solo 24 ore può essere importante per la caccia al “responsabile” o per la formazione del nuovo gruppo di “costruttori” che possa sostituire l’addio di Italia viva. Un gruppo centrista ed europeista, che i democratici saluterebbero con grande favore (lo ha detto ieri Andrea Orlando) dopo che la legislatura si era aperta nel segno del sovranismo e dei “no euro”.



Ora la relazione del ministro Alfonso Bonafede è diventata un passaggio chiave. Renzi ha ripetuto più volte nei giorni scorsi che se non fosse scoppiata l’emergenza sanitaria, un anno fa il governo sarebbe caduto proprio sulla riforma della giustizia voluta dai 5 Stelle. Una svolta giustizialista che i renziani non hanno ancora digerito. Ora con le mani libere essi non sono più vincolati a ordini di scuderia. E la giustizia non è un terreno sul quale la maggioranza possa illudersi di trovare un allargamento.

Ma la caccia non dà frutti, nonostante pare sia già pronto il decreto per ampliare il numero di ministri, viceministri e sottosegretari. Il centrodestra è compatto anche dopo l’avviso di garanzia all’ex segretario dell’Udc Lorenzo Cesa. E pure Italia viva non dà segni di cedimento: il governo contava su uno sgretolamento che non è avvenuto.



Il passaggio per Conte è davvero molto stretto. Nemmeno la lusinga di una legge elettorale proporzionale riesce a catturare le frange più centriste delle minoranze. C’è una mossa che garantirebbe la fine dello stallo, cioè le dimissioni di Conte, che comunque per il premier non significherebbero automaticamente l’addio a Palazzo Chigi: se la situazione non si sbloccasse, meglio dimettersi contando sulla possibilità di ottenere un reincarico piuttosto che andare sotto perché a Palazzo Madama manca un senatore a vita. Le dimissioni erano ciò su cui puntava anche Renzi per potere ridiscutere l’intero impianto della coalizione e allargare la propria rappresentanza. Ma sono anche un terreno minato e Conte lo sa bene.

Si va dunque avanti giorno per giorno, sapendo che le elezioni non sono più un tabù. Nei corridoi si rincorrono voci che il Pd starebbe già studiando la distribuzione dei seggi nei nuovi collegi elettorali, mentre l’accelerazione data dal reggente Vito Crimi, che ha convocato l’assemblea degli iscritti M5s per approvare il nuovo statuto del Movimento, suona anche come l’inizio di una nuova mobilitazione. Se le cose dovessero precipitare, meglio non farsi cogliere alla sprovvista.

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