Quale possa essere la conclusione delle consultazioni del presidente della Repubblica a seguito di una giornata parlamentare che potremmo definire kafkiana, l’esito del voto del Senato chiude in via di fatto una legislatura che è l’immagine del caos della politica italiana. Gestire l’attuale situazione politica ed economica con un Governo privo del consenso necessario e con le forze politiche impegnate a marcare le differenze in vista della scadenza elettorale è quanto di peggio poteva succedere al nostro Paese. Questo passaggio rischia di vanificare molti dei risultati ottenuti nel corso dell’ultimo anno, con implicazioni difficili da gestire per qualsiasi Governo venga chiamato, a seguito dell’esito elettorale, a ereditare le conseguenze del vuoto di governabilità. 



La chiamata di Mario Draghi alla guida dell’Esecutivo è stata il frutto di una presa d’atto della debolezza delle forze politiche parlamentari e della necessità di rafforzare l’azione dell’Esecutivo sul versante del contrasto della pandemia e della credibilità degli impegni che dovevano essere assunti con le istituzioni europee per l’utilizzo delle risorse del Pnrr.



Difficile negare il salto di qualità su entrambi i versanti imposto dal nuovo Governo. Riscontrabili nei livelli di partecipazione collettiva per l’attuazione delle misure anti-Covid e nel dimezzamento dei tempi del recupero delle perdite del Pil e dell’occupazione rispetto ai numeri precedenti la pandemia, originariamente traguardate per la seconda parte del 2023. Ma nel frattempo sono mutate in modo radicale le condizioni geo-politiche ed economico-finanziarie rivolte ad assicurare una ragionevole condizione di sostenibilità alla crescita del debito pubblico e ai costi della riconversione digitale e ambientale dell’economia. 



L’inflazione che si avvicina alla doppia cifra e le politiche monetarie restrittive pongono fine all’ idea di una transizione indolore, sostenuta da risorse esterne a basso costo, e assicurata da una mole ingente di sostegni pubblici. Sull’orizzonte non è nemmeno da escludere l’avvento, imposto dall’evoluzione degli avvenimenti internazionali, di un’economia di guerra, destinata a condizionare gli stili di vita delle persone, le scelte di politica industriale e quelle dei singoli imprenditori. Una condizione che dovrebbe imporre uno sforzo suppletivo di coesione nazionale, anziché aprire una crisi sulla base di motivazioni estemporanee.

L’appello a un rinnovato spirito di coesione fatto dal presidente del Consiglio alle forze politiche presuppone una condivisione del mutamento delle priorità, della natura dell’interesse nazionale che deve essere salvaguardato in questo frangente, delle alleanze internazionali che si rendono necessarie per tutelarlo. Non a caso le crepe più rilevanti nella maggioranza parlamentare che ha sostenuto la nascita del Governo Draghi si sono manifestate sulle scelte di politica estera, a partire dai sostegni da offrire all’Ucraina, e riguardo l’opportunità di sostenere le persone e le famiglie sul fronte dell’aumento dei costi e dei prezzi mantenendo fede ai vincoli di bilancio concordati con l’Unione europea.

Un tema che non è riducibile alla definizione dei provvedimenti di emergenza, ma che si ricollega alla lettura delle criticità e del grado di esposizione del nostro apparato produttivo rispetto all’evoluzione degli eventi, tra le quali quella della dipendenza dalle fonti energetiche importate è solo la punta di un iceberg di un sistema caratterizzato in grande prevalenza da una bassa produttività del capitale e del lavoro, della carenza quantitativa e qualitativa di risorse umane adeguate, dal sottoutilizzo delle risorse finanziarie e tecnologiche che abbiamo a disposizione.

I trascorsi professionali e istituzionali di Mario Draghi, e la sua indubbia autorevolezza esercitata nelle sedi internazionali, hanno rappresentato un valore aggiunto in termini di credibilità degli impegni assunti. Ma il disegno riformatore su molti versanti – il fisco, la giustizia, il lavoro, per citare quelli principali – rimane allo stato attuale connotato da buone intenzioni e non di rado da obiettivi contraddittori al loro interno per far quadrare le divergenze tra le forze politiche.

La distanza siderale tra la gravità dei problemi e l’elenco delle rivendicazioni dei singoli partiti, emerso ieri nel corso del dibattito parlamentare, la dice lunga riguardo i rischi che stiamo correndo.

Nel breve periodo la carenza di un esecutivo autorevole può essere supplita adottando dei provvedimenti tampone più o meno simili a quelli già intrapresi dal Governo Draghi per contenere i prezzi dei carburanti e delle bollette e per sostenere i redditi delle persone e delle famiglie. Interventi che lo stesso presidente del Consiglio ha preannunciato nel caso di un prosieguo dell’attività di Governo.

L’idea di costruire le condizioni di un Patto sociale con le rappresentanze del mondo del lavoro in grado di incanalare provvedimenti di più ampio respiro (la riduzione strutturale del cuneo fiscale sul costo del lavoro, l’introduzione del salario minimo nell’ambito di una riforma del sistema di contrattazione) era già tramontata per la manifesta opposizione di una parte rilevante delle associazioni sindacali e datoriali.

Il paragone con l’esperienza del Governo Ciampi degli anni ’90 è del tutto fuori luogo. Pesano in modo negativo: la tentazione dei partiti di competere con le parti sociali sul terreno delle tutele dei lavoratori; l’indisponibilità delle rappresentanze del mondo del lavoro ad assumere in prima persona l’onore e l’onere di orientare le trasformazioni del mercato del lavoro, l’assenza di tecnocrazie pubbliche competenti e in grado di supplire alla palese incompetenza degli apparati politici.

L’assenza di un Governo autorevole, e in grado di svolgere un ruolo di mediazione tra le parti sociali, non promette nulla di buono sul versante dei rinnovi contrattuali, tra i quali restano in attesa anche quelli dei dipendenti della Pubblica amministrazione.

Sommando gli oneri necessari per ridurre il cuneo fiscale, quelli relativi alla rivalutazione delle pensioni e del rinnovo dei contratti collettivi dei pubblici dipendenti il costo supera i 30 miliardi di euro. Solo in parte finanziabili con l’aumento degli introiti fiscali nominali legati, essi stessi dell’incremento dei prezzi.

Ci sarà tempo e modo per riflettere sulle ragioni di fondo che hanno dato origine alla formazione, al successo e al declino repentino di forze politiche improvvisate. Incapaci di conciliare le promesse elettorali con il principio di realtà. Allo stato attuale non esiste un’offerta politica in grado di proseguire l’esperienza del Governo Draghi e di consolidarla nell’ambito dell’evoluzione delle Istituzioni europee.

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