Solo a metà settimana sapremo se le dimissioni di Mario Draghi (peraltro respinte dal capo dello Stato) apriranno una “crisi politica formale” (è già in corso da tempo quella sostanziale causata da continue impuntature del capo politico del Movimento 5 Stelle nel tentativo di recuperare qualche voto alle prossime elezioni politiche).



Tuttavia, le convulse vicende italiane hanno avuto una chiara vittima, che resterà tale pur nell’ipotesi che i voti parlamentari convinceranno l’attuale presidente del Consiglio a restare a palazzo Chigi: l’Unione europea.

Facciamo un passo indietro. L’Ue giunse l’apice del suo prestigio e della sua forza circa trent’anni fa (nel 1993) quando venne coronato il sogno di Jacques Delors: Un’Europa senza frontiere. Nel 1993 viene lanciato il mercato unico con le “4 libertà” di circolazione per le persone, le merci, i servizi e i capitali. Gli anni Novanta sono inoltre il decennio di due importanti trattati: il Trattato sull’unione monetaria (trattato di Maastricht) nel 1993 e il Trattato di Amsterdam nel 1999. Da allora a pochi anni fa, l’Ue ebbe un progressivo indebolimento: l’allargamento a Est non apportò un rafforzamento, ma una minore coesione (a ragione delle profonde differenze culturali tra quello che possiamo chiamare il “nucleo storico” dell’Ue e Paesi che per settanta anni erano stati imbevuti di “socialismo reale”), la politica estera e di difesa non decollò mai, nelle guerre e guerriglie che portarono alla dissoluzione della ex Jugoslavia l’Ue è stata poco più di un comprimario, la risposta dell’Ue alla crisi finanziaria mondiale del 2008-2009 è stata tardiva e modesta.



L’Ue ha trovato un drive, una spinta per una nuova coesione nel dover rispondere alla pandemia: il programma Next Generation Eu è stato messo dalla Commissione e approvato del consiglio dei Capi di Stato e di Governo a tempo di record e i relativi Programmi nazionali di ripresa e resilienza sono in fase soddisfacente di attuazione. La coesione è parsa diventare maggiore quando l’invasione dell’Ucraina da parte della Federazione Russa ha portato la guerra guerreggiata ai confini dell’Ue. Ci sono state differenze d’accento tra i 27 Stati membri, ma ne è sorta una nuova coesione basata sul principio che l’Ue deve darsi una politica di difesa comune (con relativa strumentazione militare) e non dipendere dagli Stati in questa materia (anzi, averne un ruolo paritario in seno alla Nato).



Progressi in questa delicata materia non possono essere guidati da un’istituzione essenzialmente tecnica come la Commissione europea, né collegialmente da un organo a 27 membri come il Consiglio.

In una prima fase, si era pensato che la guida potesse essere assunta da una troika o triade di tre Stati membri di forte peso economico e scelti tra i fondatori: Francia, Germania e Italia. La Francia era una candidata naturale anche a ragione del forte ruolo sempre dato agli armamenti e all’industria militare. Anche se la Bundeswehr non ha il peso del comparto analogo della Francia, la Germania è il Paese più importante sotto il profilo economico. E l’Italia ha un buono, anche se non eccelso, industrial military complex e può mettere in campo la leadership di Mario Draghi.

Il 27 giugno su questa testata è stato analizzato come Emmanuel Macron non abbia realizzato nessuno degli obiettivi per il “semestre francese” (1 gennaio-30 giugno 2022) da lui presentati al Parlamento europeo, Inoltre, l’esito delle recenti elezioni legislative induce a pensare avrà serie difficoltà in Patria dove sta già montando una protesta sociale contro il suo Governo e contro di lui personalmente.

In Germania Olaf Scholz, da un lato, deve mediare tra Liberali e Verdi, la cui differenze sono molto più profonde di quanto si pensasse quando il programma di Governo è stato approntato. Inoltre è sotto ricatto dalla Federazione Russa per l’approvvigionamento di gas.

Mario Draghi sembrava il candidato ideale, ma se non è più Presidente del Consiglio italiano non può più fare parte del Consiglio europeo dei Capi di Stato e di Governo. Indebolendo l’Ue.

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