L’incertezza sul varo del governo è determinata dal fatto che è in corso la lotta per la leadership del M5s. Da un lato c’è Beppe Grillo che con Roberto Fico, dopo la sconfitta delle europee, punta su Conte con il Pd; dall’altro c’è Di Maio a cui viene in soccorso anche Di Battista (che si sente ora scaricato dal fondatore). Nel complesso a favore di Conte c’è la base sicura in Parlamento di chi teme le elezioni anticipate. Con risvolti un po’ paradossali. I parlamentari 5 Stelle, che hanno paura di non essere rieletti, sono per non insistere su Di Maio vicepremier. Nel Pd invece chi non vuole lo scioglimento anticipato – come Matteo Renzi che perderebbe molti parlamentari – è a favore di Di Maio.



Una mossa, questa dell’ex premier, forse controproducente perché il suo deterrente è la minaccia di una scissione, ma se Zingaretti va – come voleva sin dall’inizio – al voto, la rottura da parte di chi ha sostenuto a tutti i costi (anche sotto forma di mero rimpasto di governo) l’alleanza con Grillo non è più una contestazione da rottamatore della “ditta”. Infatti la principale incognita del governo M5s-Pd è il carico di statalismo e assistenzialismo nel “programma condiviso” che Conte sta predisponendo e che potrebbe rilanciare nel complesso il centro-destra e risuscitare Salvini.

Certamente un fattore importante a favore di Conte è Mattarella, anche se il Capo dello Stato ha fatto scrivere ai “quirinalisti” dopo l’incontro di sabato con Conte che non vuol essere “coinvolto”. Preoccupazione un po’ tardiva.

Forse mai nell’Italia repubblicana il Quirinale è stato così centrale in una crisi di governo: sia come tema sia come persone fisiche.

La prospettiva dell’elezione presidenziale del 2022 è stata determinante per indurre il Pd a ostacolare a tutti i costi lo scioglimento anticipato delle Camere e orientarlo a un’alleanza con il M5s. Infatti sulla base delle recenti elezioni europee e di tutti i successivi sondaggi il voto anticipato significa il sicuro avvento di una maggioranza parlamentare che avrebbe eletto dopo più di 40 anni un Presidente della Repubblica senza i voti della sinistra. Un evento considerato da larga parte della sinistra italiana e del vertice del Pd una sorta di golpe. Voce isolata quella di Calenda, che considera Salvini non un fascista ma un “leader di cartapesta” che può essere battuto in campo aperto. Se rimane in vita questo Parlamento con Conte a Palazzo Chigi, è naturale che al Quirinale rimanga Mattarella che è il candidato Pd più facilmente “digeribile” per il M5s.

È così che nel giro di nemmeno una settimana di Ferragosto tutta la decennale letteratura sull’antipolitica e sul populismo grillino è stata liquidata e il M5s è diventato – come fu per D’Alema la Lega di Bossi contro Berlusconi – un salvifico alleato (una “costola della sinistra”).

Nell’area ex Pci si è nobilitato l’accordo Pd-M5s come una sorta di nuova “svolta di Salerno” tra Zingaretti-Togliatti e Conte-Badoglio.

Ma anche per il M5s è stata una svolta non di poco conto con l’archiviazione di democrazia diretta, streaming, vaffa, antieuropeismo, anti-compromessi e lottizzazione. Non più “contratto”, ma il tradizionale accordo con “programma condiviso”. Un cambiamento che mette inevitabilmente in discussione la leadership di Di Maio. La svolta è stata infatti decisa con un improvviso “vertice” convocato da Beppe Grillo per ratificare la sua già annunciata decisione con sette persone da lui scelte secondo imprecisati criteri di autorità e rappresentatività. In uno scenario hollywoodiano nella sua villa di vacanze il garante-produttore dopo i fischi registrati nell’anteprima-elezioni europee ordinava al capo politico-regista di cestinare le scene girate con la vecchia star-Salvini e di cambiare il finale-alleanza di governo.

Ed è qui che il Quirinale entra in scena anche fisicamente come protagonista. Con la brusca dichiarazione fatta dopo il primo giro di consultazioni, Sergio Mattarella ha intimato a Luigi Di Maio di chiudere la politica dei “due forni” e di tornare rapidamente al Quirinale con un’indicazione univoca, pena l’immediato scioglimento delle Camere che avrebbe dimezzato i suoi parlamentari. Successivamente Mattarella è intervenuto in prima persona con un comunicato stampa fatto firmare a Castagnetti per convincere Zingaretti a levare il veto su Conte (citando addirittura l’accordo Berlinguer-Moro del 1976).

Ma ora Luigi Di Maio pretende di rimanere vicepremier come ricompensa per non aver rieditato l’alleanza con la Lega. Altrimenti minaccia il voto anticipato per poi rifare l’alleanza con Salvini che da parte sua ha già garantito la rottura con Berlusconi e che andrebbe al voto da solo.

Le prossime ore scioglieranno finalmente il “giallo” di questa estate su chi realmente decide nel M5s della “democrazia diretta” tra fondatore, capo politico e azienda di famiglia.