Più che una crisi di governo sembra la tela di Penelope. Da un lato la mozione di sfiducia della Lega nei confronti del governo, dall’altro tutte le opposizioni di “sinistra” pronte a formare un nuovo governo col M5s pur di togliere Salvini dal Viminale. 

Il leader del Carroccio si aspettava che quantomeno Renzi restasse della sua opinione di sempre, cioè mai coi 5 Stelle, in modo tale che – in assenza di altre maggioranze – il Capo dello Stato si sarebbe trovato nelle condizioni di sciogliere le Camere e indire nuove elezioni per ottobre.



E invece il senatore di Firenze, come preferisce farsi chiamare adesso, fregandosene del fatto di non essere più il segretario del Pd, ha sparigliato le carte annunciando di essere pronto a formare un nuovo governo (addirittura di legislatura) con M5s, LeU, centristi, +Europa e, se ci sta, pure Forza Italia. L’obiettivo è chiaro: evitare che con le elezioni anticipate in autunno la sua corrente sia spazzata via nella compilazione delle liste da parte di Zingaretti, che invece si è detto favorevole alle urne, salvo cambiare idea una volta al giorno. Meglio non fidarsi, sono pur sempre ex comunisti pronti a qualsiasi inciucio pur di andare al potere.



Ed ecco che Matteo Salvini, sorprendendo tutti, il 13 agosto dall’aula del Senato getta acqua sul fuoco e invita il M5s ad approvare alla Camera, in ultima deliberazione, la legge di revisione costituzionale che prevede la riduzione del numero dei parlamentari (cavallo di battaglia dei pentastellati) e concordare subito dopo la data delle elezioni anticipate. Ad una prima apertura di Di Maio è seguita la chiusura di Fico, presidente della Camera, che ha calendarizzato la discussione sulla legge di revisione costituzionale dopo il 20 agosto, vanificando formalmente lo sforzo del ministro dell’Interno.

A quel punto Di Maio si è scatenato contro Salvini dicendo di non fidarsi più e che le sue sono mosse dettate dalla disperazione.

A rincarare la dose è intervenuto il presidente del Consiglio Conte che, con una lettera aperta indirizzata al ministro dell’Interno (volutamente provocatoria), lo ha accusato di sleale cooperazione. Salvini gli ha risposto per le rime, ma il problema di fondo resta: è possibile evitare che nasca un governo M5s-Pd che devasti il Paese?

Anche se in extremis, crediamo di sì.

Va anzitutto precisato che la mozione di sfiducia presentata dalla Lega al Senato il 9 agosto non è stata ancora calendarizzata per mancato accordo all’interno della conferenza dei capigruppo tenutasi lunedì 12, quindi il presidente del Senato – su indicazione dell’aula con le votazioni del 13 – ha aggiornato la seduta a martedì 20 agosto per comunicazioni del presidente del Consiglio. 

Formalmente, come si è detto, la mozione di sfiducia non è calendarizzata, ma potrebbe essere discussa su eventuale accordo della capigruppo sia quel giorno stesso (il 20) oppure il giorno successivo o nei giorni a seguire. Quindi la crisi di governo, in apparenza, non può essere evitata. Solo in apparenza però; infatti nella realtà  – dopo le dichiarazioni del presidente del Consiglio Conte – Salvini potrebbe evidenziare in aula i motivi legittimi che hanno spinto la Lega a presentare la mozione di sfiducia (poco coraggio nelle politiche economiche e nei rapporti con la Ue, il voto decisivo nei confronti della von der Leyen e il fuoco amico sull’immigrazione), dichiarando di essere disponibile a ritirare la mozione di sfiducia su impegno del presidente del Consiglio ad un cambio di passo soprattutto sui temi economici e sui rapporti con l’Unione Europea, nell’interesse nazionale.

A quel punto il presidente Conte potrebbe replicare accogliendo la nuova posizione della Lega, dicendosi disponibile al cambio di passo e ad un eventuale rimpasto, e la crisi sarebbe scongiurata.

Ma è ben poco probabile che vada così.

Se da un lato la mozione di sfiducia può essere ritirata (chi l’ha presentata ha anche la facoltà di ritirarla), dall’altro non è escluso che, dopo le sue dichiarazioni, il presidente del Consiglio rassegni ugualmente le dimissioni nelle mani del capo dello Stato, aprendo formalmente la crisi di governo. A quel punto, per prassi ormai consolidata, il capo dello Stato chiederà a Conte se vuole o meno tornare alle Camere per verificare il rapporto fiduciario col Parlamento, ma Conte può rifiutarsi (nella sedicesima legislatura Berlusconi, su invito di Napolitano, si rifiutò).

È chiaro che se Conte tornasse in aula, la Lega potrebbe confermargli la fiducia e la crisi di governo sarebbe risolta. Di precedenti ce ne sono un bel po’. Ci piace ricordare quello dell’autunno 1997 (tredicesima legislatura) quando Rifondazione comunista annunciò voto contrario alla finanziaria del governo Prodi I. Il professore si dimise e dopo ventiquattr’ore Bertinotti si disse pronto ad un nuovo accordo, che comprendeva le 35 ore lavorative settimanali. Il 14 ottobre il governo fu rinviato alle Camere e il 16 ottenne la fiducia. Crisi rientrata e stretta di mano tra Prodi e Bertinotti, senza fare le prime donne come adesso sta facendo Conte.

Ma se il presidente del Consiglio si rifiutasse di tornare alle Camere, si aprirebbero altri scenari con le consultazioni dei gruppi parlamentari al Colle. Difficile l’ipotesi di un Conte bis, anche perché ciò dovrebbe derivare dalla volontà politica o dell’attuale maggioranza, oppure di una maggioranza diversa (nel 2005, quattordicesima legislatura, Berlusconi riottenne l’incarico dopo tre giorni dalle dimissioni, ma erano tutti d’accordo, compreso Follini che aveva aperto la crisi). Non crediamo che Renzi accetti un Conte bis, preferendo per Palazzo Chigi un nome come quello di Cantone.

A quel punto Salvini potrebbe giocare l’asso nella manica, cioè proporre quello che avevamo già proposto lo scorso anno, proprio da questo giornale, all’inizio della legislatura: il patto della staffetta tra Di Maio e Salvini, cioè Di Maio a Palazzo Chigi adesso al posto di Conte, con Salvini vicepremier e al Viminale, e coi ministri dell’Economia e della Difesa in quota Lega. Conte potrebbe accettare un ministero importante oppure il posto di commissario europeo. Tra due anni Salvini andrebbe a Palazzo Chigi, Di Maio vicepremier e un grillino (non un tecnico come lo è Tria) in via XX Settembre. Un patto della staffetta per portare a termine la legislatura.

Potrebbe nascere così un nuovo governo giallo-verde che eviti agli italiani il peggiore dei mali: un accordo M5s-Pd che i 5 Stelle pagherebbero a caro prezzo. Di Maio non lo dimentichi, un incesto con quello che lui stesso ha definito il “partito di Bibbiano”, sarebbe mortale per le sorti del Movimento. Una riedizione suicida in stile Alfano, tanto per capirci.

È difficile ricostruire un rapporto di fiducia dopo un tradimento reciproco, ma se nella vita privata è possibile, perché non provarci anche in quella pubblica? Certo, se colui che aveva in qualche modo accettato il matrimonio, Beppe Grillo, ora si mette di traverso, allora tornare insieme sarà molto difficile.