Adesso che Giuseppe Conte ha aperto la crisi di governo non votando la fiducia al decreto aiuti, che cosa resta del “campo largo” del Pd e del suo segretario Letta?

Già da un po’ di tempo lo scenario politico va delineandosi non in considerazione delle esigenze del Paese, bensì in relazione alle prossime elezioni politiche che, a questo punto, potrebbero arrivare addirittura il 25 settembre, giusto in tempo per assicurare il vitalizio di deputati e senatori.



La legge di bilancio e l’attuazione del Pnrr sono messe avanti non perché veramente essenziali per l’equilibrio dei conti pubblici, dopo i debiti contratti per fronteggiare la pandemia, e la continuità di Draghi non è auspicata per il ruolo che egli assicura all’Italia nel governo dell’Europa e nelle relazioni internazionali in tempi di guerra, quanto piuttosto per la totale impreparazione alla campagna elettorale dei partiti della maggioranza: il M5s, se non si disintegra prima, cerca di smarcarsi e di andare all’opposizione nel tentativo di riprendere dei consensi, ma ha bisogno di tempo; i partiti minori, da Calenda a Renzi e allo stesso Di Maio, non hanno ancora trovato un comune denominatore e un centro frammentato non è detto che sia attrattivo per gli elettori; anche la sinistra con Speranza, Fratoianni e Bonelli appare frammentata e molto poco significativa e sembra avere perso ogni appeal. Il centrodestra, dal canto suo, avrebbe pure bisogno di tempo per ritrovarsi rispetto alle divisioni che lo caratterizzano, che sono un po’ celate, ma che in realtà sono profonde.



Insomma, le elezioni sono così vicine, e pure così lontane, anche perché c’è il nodo della legge elettorale di mezzo.

Il Pd è già all’opera per allontanarle il più possibile, perché non può andare al voto da solo, dopo un anno circa che predica l’alleanza con il M5s contro le destre e che colloca – in modo azzardato – questo movimento nell’ambito della sinistra.

Questa alleanza che Letta e il Pd hanno continuamente data per fatta, salvo alcune prese di distanza dei giorni scorsi di fronte all’evidente sterzata di Conte, ha comunque un carattere procedurale; cioè prescinderebbe dai contenuti politici e servirebbe a mettere insieme pezzi di consenso in quantità tali da potere apparire competitivi con il centrodestra e in grado comunque di compiere giochi di palazzo come è accaduto ancora in questa legislatura in cui, da grande sconfitto delle elezioni del 2018, il Pd si è trasformato, prima con il Conte 2 e poi con il governo di “larghe intese”, in uno dei pilastri di questi due governi, con ministri e sottosegretari.



Il Pd che compete all’elezione da solo è un Pd sconfitto in partenza; e il pericolo è che una maggioranza politica più coesa (almeno, così è paventata quella di centrodestra) possa costringerlo a un lungo periodo di opposizione in un Parlamento di ridotte dimensioni, in cui siederanno gruppi parlamentari di ridotte dimensioni.

Questa semplice considerazione porta il Pd a temere le elezioni a breve termine.

Ma anche a lungo termine, cioè alla primavera del 2023, la situazione sembra migliorare di poco.

Quale alleanza elettorale, infatti, il Pd è in grado di costruire da qui a marzo prossimo?

Con il M5s, anche se in una qualche misura dovessero rientrare le posizioni che hanno determinato la crisi di governo, sembra difficile che si possa formare una coalizione: più Letta parla di una coalizione con il M5s, più Conte ha bisogno di differenziarsi.

Ma anche l’area centrista Calenda-Renzi-Di Maio, ammesso che esista, che interesse avrebbe ad allearsi con il Pd? Questi tre vogliono dare vita a nuove soggettività politiche, ma sono un po’ in affanno con percentuali di consenso attorno al 2%; quello che appare più vicino a questo risultato è Calenda, che sembra superare la soglia del 5% e addirittura si ipotizza, per le elezioni politiche, un exploit prossimo al dato delle elezioni nel Comune di Roma. Proprio per questo il meglio per lui è una competizione senza alcuna alleanza con il Pd.

Il Pd è un socio scomodo per tutti e le ragioni sono due e concorrenti: la prima è che non fa crescere alcun albero accanto al suo, e questo spiega le fibrillazioni del M5s; la seconda è che anche i cespugli di cui si attornia da sempre non crescono mai, anzi sono nani che diventano sempre più nani, per via dei modi in cui il Pd esercita la sua egemonia svutandoli in modo silente.

Bisogna considerare che il Pd, dalla sua nascita nel 2007, ha conosciuto molteplici leadership, da Veltroni a Letta, per il vero non irresistibili, ha cercato di dare vita ad alleanze inedite, ma sempre molto deboli, e ha perduto tutte le elezioni che si sono susseguite: 2008, 2013 e 2018.

Grazie ai vizi delle leggi elettorali e alle contingenze della politica italiana, poi, ha fatto parte in tutte e tre queste legislature di maggioranze di governo, macinando ogni genere di alleato: da Di Pietro ad Alfano.

Il suo consenso politico è oscillato da poco più del 30% (2007) a poco meno del 20% (2018). Una quantità di per sé sempre insufficiente a legittimare il potere di direzione dello Stato; eppure è il partito che ha gestito più potere, che ha nominato più sottogoverno, che ha speso più risorse pubbliche e che ha cambiato più spesso le regole elettorali a proprio vantaggio.

Oggi, anche per questi aspetti è il meno appetibile degli alleati.

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