L’attuale strategia del rinvio, attraverso la quale si sta tentando di recuperare singoli deputati per avviare una nuova fase, rivedendo la distribuzione delle poltrone e degli incarichi mediante la formula di un nuovo governo, si rivela completamente disassata rispetto alla tempesta che sta attualmente scuotendo l’Italia. Esiste un divario sconcertante tra la gravità dei problemi sul tappeto e l’ingenuità con la quale anche personalità politiche dotate di profonda esperienza ritengono di poterla risolvere con accordi e alleanze. Esattamente come, un anno fa, abbiamo affrontato le prime settimane di pandemia rispolverando l’allegra noncuranza dell’ottimismo degli anni sessanta, adesso ci prepariamo a compiere un nuovo e plateale sottodimensionamento del problema, ritenendo che, con gli opportuni lifting parlamentari, si possano affrontare e risolvere i problemi sul tappeto.



Ciò che appare decisamente grave è l’uso strumentale dell’emergenza virus, affermando che un eventuale ricorso alle urne ne favorirebbe la diffusione e rallenterebbe la campagna vaccinale, come se le distanze di sicurezza non potessero essere gestite nei seggi elettorali e come se non fossero invece lo strapotere del mercato e le infinite difficoltà di gestione del nostro sistema organizzativo – unite a qualche solare ingenuità che crede di occultare le incapacità reali con le strategie mediatiche – ad essere le vere responsabili del rallentamento dei vaccini.

La sorpresa per una simile incoscienza e per la sconcertante insensatezza con la quale si ritiene di affrontare il presente, si tramuta in preoccupazione profonda qualora ci si renda conto della situazione reale.

Purtroppo l’attuale quadro politico, economico e sociale presenta tutte le caratteristiche della “tempesta perfetta”: un’economia segnata da vent’anni di ristagno e da una ripartenza improbabile che ci hanno fatto precipitare in fondo alla classifica europea; una società piagata da una pandemia implacabile, ma soprattutto aggravata da un’incapacità manifesta di rispondere alla chiusura delle attività produttive con un efficace sistema di sostegni alle imprese; un quadro politico segnato da una grande incertezza che va ben al di là dei numeri ma concerne gli stessi progetti, cioè le vie d’uscita. E tutto questo alla vigilia di provvedimenti strategicamente vitali per il futuro del Paese.

Dinanzi ad una tempesta di questo tipo, che richiede certamente interventi autorevoli, non è possibile non prendere atto del perimetro tracciato dai problemi in questione.

Se è opinione ampiamente condivisa da tutti i fronti l’indispensabilità di una svolta, tanto radicale quanto indispensabile, occorre essere coscienti dell’agenda delle emergenze alle quali qualsiasi compagine di governo sarà chiamata a rispondere e che sono in primo luogo di carattere legislativo.

Non si tratta infatti di tagliare il debito pubblico, quanto di saper realizzare quelle modifiche sostanziali nella procedura di spesa che ci renderebbero capaci di spendere i fondi eventualmente a disposizione. Lo stesso dibattito se prendere o meno gli aiuti dell’Europa è, sotto questo aspetto, un dibattito lunare nella misura in cui non affronta il problema della nostra capacità a spenderli. Capacità sulla quale è lecito dubitare, viste le incapacità manifestate fino ad oggi, con la sola eccezione del Ponte di Genova: unica e meravigliosa concessione fatta al buon senso.

Infatti si tratta anche di liberare le capacità operative degli amministratori, spesso bloccate da un sistema di regole e di controlli che li rende inattivi. Così come si rende necessario un blocco delle cartelle fiscali, a misura del disastro provocato dal blocco delle attività ed in grado di recuperare i ritardi già accumulati dall’Inps; ritardi dovuti, in gran parte, a quello stesso sistema di regole che bisognerebbe riformare.

Si tratta infine di realizzare quella riforma del codice di procedura penale in grado di risolvere il problema di una magistratura che sta funzionando, di fatto e da oltre vent’anni, come un corpo politico a sé stante, senza avere la minima legittimità per farlo ed i cui disastri sono oramai moneta corrente.

Nessuno di questi provvedimenti – riassunto qui in termini volutamente generali – si può riassumere sotto l’egida tranquillizzante della “semplificazione burocratica”. La burocrazia non è figlia del caso: i nostri funzionari non fanno che applicare leggi e regole che i diversi governi hanno seminato nel corso degli anni. Cambiarle vuol dire mettere le mani nell’hardware del nostro sistema amministrativo, rivedere profondamente il nostro sistema legislativo e le nostre regole, anche in tema di giustizia civile, che poi sono quelle che tengono tutti gli investitori lontano dall’Italia, aggravando ancora di più il nostro quadro occupazionale.

Nessuno di questi temi è secondario e, soprattutto, nessuno di questi temi ha trovato una soluzione adeguata, in questo governo come nei precedenti.

Pensare che un qualsiasi governo di unità nazionale nato da un’operazione di restyling politico potrebbe risolvere il problema dello stallo politico ed economico di un intero paese, vuol dire non tenere conto della profonda fragilità che il nostro sistema politico ha accumulato negli ultimi anni e per la quale qualunque soluzione che non passi per le elezioni appare come l’ennesimo sottodimensionamento della gravità della crisi in atto, di quella “tempesta perfetta” che ci sforziamo di non guardare nascondendo dietro la tragicità della pandemia quella, ancora più tragica, della nostra incapacità  ad affrontarla.