Forse anche nell’interpretazione della storia e della filosofia della storia, Karl Marx è stato superato. La teoria dei ricorsi, in forme diverse, che prima sono tragedie e poi si ripetono in farsa, tentenna fortemente di fronte allo spettacolo che va in onda in questi giorni nelle aule istituzionali, sugli schermi televisivi e nel mondo dell’informazione intorno alla perenne, anzi endemica, crisi italiana.



Attenzione, attenzione: perché il racconto (lasciamo perdere per favore la narrazione e regaliamola ai nuovi linguisti conformisti) è tortuoso. Il ministro dell’Interno, Matteo Salvini, scalpitante per natura, dopo il risultato delle elezioni europee è diventato scalciante, e il suo naturale “bullismo” lo ha portato a uno scontro generale. Si è sentito quasi sicuro di “licenziare” l’educato e modesto Giuseppe Conte da Palazzo Chigi, chiedendo, quasi a titolo personale, il ricorso alle elezioni anticipate.



Il motivo principale della richiesta salviniana è soprattutto (anche se non solo) la votazione pentastellata al Parlamento europeo a favore di Ursula von der Leyen. La signora Ursula è diventata presidente della Commissione per sette seggi. I pentastellati e l’attivismo di Conte e altri, in salsa di Strasburgo, sono diventati decisivi con un dono di quattordici seggi. È stata, una sorta di linea del Piave contro lo strapotere di Salvini, il suo stesso allargarsi in Europa, e si è rivelata alla fine la vera firma di una crisi per una delle maggioranze più anomale e stravaganti della storia repubblicana italiana.

MaSalvini, troppo sicuro di sé, ha perso tempo e ha tirato avanti per quasi un paio di mesi, aprendo di fatto una crisi a Ferragosto. Quasi un affronto alla tradizione del Bel Paese. Che è successo a questo punto? Di tutto e di più. Piroette, acrobazie, contestazioni, valzer viennesi e stati di profonda confusione si accavallano. I cinquestelle grillini, che sono terrorizzati dalle urne, dicono che Salvini ha “tradito il popolo italiano” e non vuole il taglio di 345 parlamentari che, secondo Giggino Di Maio, si può realizzare come legge in due ore. Salvini replica, a sorpresa, che è pronto a varare la legge del “taglio”. Momenti di apprensione e poi risposte a vanvera, da una parte e dall’altra.

La rissa tra grillini e leghisti sembra una litigata da Bar sport, ma è guardata con un certo interesse e anche con apprensione del Colle. In più, sollecita anche i pokeristi di provincia a inserirsi nel gioco, quelli che teorizzano “piatto ricco mi ci ficco”. Ecco il redivivo Matteo Renzi, che controlla di fatto la maggioranza dei gruppi parlamentari del Pd, che smentisce la linea del nuovo segretario Nicola Zingaretti e invita a un colloquio costruttivo con i pentastellati, prima a un voto comune sul calendario della crisi, poi, magari, alla possibilità, di una collaborazione.

A questo punto dall’estrema destra all’estrema sinistra c’è un ribaltamento di tutte le precedenti posizioni: i punti di vista in materia costituzionale; le scelte politiche che vengono modificate o addirittura rovesciate. Qualche guru mediatico dice: “È la democrazia parlamentare, bellezza”. Forse di alcuni Paesi d’oltremare, si potrebbe commentare.

Al Senato si assiste a un dibattito dove si discute soprattutto di abbronzature e si scalpita negli applausi incrociati. Intanto sulla sfondo di mille interrogativi, al termine di frasi subordinate di memoria ciceroniana (in Italia Pierre Bayle è ancora poco conosciuto), si affaccia la serissima immagine del Presidente della Camera, Roberto Fico, “grande esegeta” di Jean Jacques Rousseau. Si spera, almeno quello.

No, Marx è largamente superato, non siamo alla farsa dopo la fase tragica, siamo arrivati al teatro dell’assurdo, con molto ritardo. Eugene Ionesco scrisse Il rinoceronte alla fine degli anni Cinquanta (una moglie era convinta di aver visto un rinoceronte con le sembianze del marito e alla fine tutti ci credevano). Ma prima di Ionesco era arrivato un grande spettacolo a Broadway, un musical del 1938 che diventa film nel 1941, Hellzapoppin’ con un titolo di testa da capolavoro: “Ogni somiglianza tra Hellzapoppin’ e un film è puramente casuale”. Due grandi registi fanno un autentico capolavoro del “nonsense” e influenzeranno grandi artisti come Mel Brooks, il primo Woody Allen e forse anche Gene Wilder. Il nome ha una derivazione composita: hell (inferno), zap (colpire), ma viene profeticamente iscritto lo zapping tv e il “botto” con il popolare della cultura di massa. Nei paesi anglosassoni helzapoppin’ è diventato sinonimo di baraonda senza capo né coda.

Ecco la crisi italiana, che cova da anni, che non si riesca mai a risolvere, che nasce da alcuni “benpensanti”, con il marchio dell’antipolitica più devastante, è arrivata al nonsense, al suo capolavoro, a hellzapoppin’. E si potrebbe parafrasare: ogni somiglianza tra la politica e la crisi italiana è puramente casuale. Chi si azzardava a cercare di comprendere la decadenza continua di questo Paese, da almeno venti anni a questa parte, veniva tacciato di pessimista se non di catastrofista.

Sia chiaro che il nonsense di Helzapoppin’ per l’Italia è una tragedia, una versione amara e scoraggiante. Un anno fa crollava un ponte al centro di Genova: una tragedia con 43 morti per un’azienda concessionaria che non curava la manutenzione, ma che nel periodo delle privatizzazioni fece pure una grossa plusvalenza. Si può definire tutto questo orribile?

Eppure nessuno ancora scuote alcune certezze del passato di venti anni fa. Massimo D’Alema, che fu un artefice della cosiddetta seconda repubblica, sosteneva che le privatizzazioni italiane sono un caso di studio a livello internazionale per la dimensione delle vendite, nel mondo inferiori solo al Giappone e al Regno Unito, l’efficace sequenza delle vendite e le procedure trasparenti.