Sono i giorni delle talpe, di chi lavora al buio, sotto terra, in silenzio, e pochi sanno quello che si muove veramente. Fino a martedì, quando Giuseppe Conte si presenterà al Senato per le sue “dichiarazioni”, tutto può ancora succedere al governo pentaleghista. Perché fino a martedì ogni giocatore scommette sulle brutte carte dell’avversario, non sulla forza delle proprie. È una partita giocata sui bluff. Vincerà chi avrà più faccia di bronzo degli altri.
Il più debole è quello che sembrava il più forte, ovvero Matteo Salvini, colui che la crisi l’ha scatenata sfiduciando Conte prima a parole e poi presentando una mozione che dovrebbe detronizzarlo ma in realtà non è ancora nel calendario dei lavori parlamentari. E i ministri leghisti si guardano bene dal dare le dimissioni, che sarebbe il sistema più chiaro e veloce per innescare la crisi di governo e giungere rapidamente al voto: il loro addio avrebbe impedito al fronte avverso di compattarsi e reagire. Il ministro dell’Interno è talmente in difficoltà che un premier cauto e mediatore come Conte si è preso il lusso di prendere a schiaffi (metaforici) il suo vice sul tema migranti. Si rivolge a lui per iscritto (due lettere in quattro giorni) e lo costringe a piegare la testa davanti allo sbarco dei profughi sulla Open Arms poco dopo il varo del Decreto sicurezza bis, che invece avrebbe dovuto produrre l’effetto opposto. Per Salvini è una resa umiliante.
Conte, dunque, per una volta mostra i muscoli. Ma non è che i grillini stiano molto meglio. Hanno alzato un fuoco di sbarramento mediatico per isolare Salvini, il loro nuovo nemico al posto del Pd. Ora i dem sono l’ancora di salvezza per evitare le urne, cioè il ritorno a casa. Gli sherpa lavorano per verificare le possibilità di un accordo con il partito di Zingaretti. Ma se ci hanno messo due mesi a trovare un’intesa traballante con la Lega, senza riuscire a superare i 15 mesi di governo, appare difficile che in una settimana riusciranno a intavolare quel patto “alto” che Zingaretti e soprattutto Sergio Mattarella chiedono prima di mettere i loro sigilli. E questa è la debolezza reale sulla quale fanno leva le speranze leghiste di tornare a votare subito.
Tra i due litiganti Salvini e Di Maio, chi ha goduto di più è stato Matteo Renzi, tornato protagonista per avere spiazzato il suo segretario ma soprattutto per avere colto di sorpresa Salvini. Il leghista pensava di dare una spallata al governo, ma non si aspettava la mossa del cavallo renziana, cioè la proposta di accordarsi con chi, negli ultimi anni, non ha fatto altro che coprirlo di fango. Un colpo a sorpresa che difficilmente porterà a un governo di legislatura, ma sicuramente è servito a indebolire la leadership leghista, a mostrare che anche Salvini a volte va nel pallone. Il danno all’immagine del vicepremier è il vero risultato dell’offensiva renziana. Il Capitano non è più un invincibile.
Ma Salvini sa che Renzi non ha dietro di sé il partito. Ha solo i parlamentari Pd e non tutti. E gli elettori di sinistra non sono pronti a una giravolta così ardita, sia pure per dare contro al “fascista odiatore”. La Lega invece guarda ai movimenti di altre forze, non politiche ma economiche. Molti industriali del Nord in questi giorni sono usciti allo scoperto in favore del voto subito contro il “partito del no”. E il Financial Times ha scritto che gli investitori apprezzerebbero un governo a trazione leghista soprattutto se l’affidabile Giancarlo Giorgetti fosse il ministro dell’Economia. Non tutti i poteri forti sono per il governo istituzionale. Il leader leghista dovrebbe fare marcia indietro, puntare a un Conte-bis costringendo sé stesso (e Di Maio) a un ruolo più defilato. Giravolta per giravolta, dopo quella di Renzi potrebbe toccare a Salvini.