Caro direttore,
se il governo M5S-Pd vedrà la luce avrà – stando a molte indiscrezioni – un premier non proveniente dal Parlamento. Non sarebbe la prima volta, anzi: affermerebbe ormai una quasi-regola nella storia italiana recente.

Non è mai stato deputato o senatore (ma è stato per un decennio commissario Ue) Mario Monti quando il presidente Giorgio Napolitano gli conferisce l’incarico di premier istituzionale nel 2011. Il Quirinale si preoccupa peraltro di “parlamentarizzarlo” subito come senatore a vita.



L’anno dopo Monti – da premier in carica – si trasforma in leader politico di Scelta civica, alla vigilia del voto 2013. Il Capo dello Stato gli consente – allo scioglimento delle Camere – di far dimettere il governo, mantenendolo tuttavia in carica durante la campagna elettorale. La “lista Monti” riporta un netto insuccesso, ma sottrae voti al Pd e contribuisce alla sua “non vittoria” (i Dem non hanno mai riportato un’affermazione netta a un voto politico: sono usciti invece sconfitti sia nel 2008 che nel 2018).

Sei anni fa, dopo il fallimento del primo tentativo di maggioranza Pd-M5s, nasce un esecutivo dalla maggioranza composita (13 sigle vi si alterneranno in un anno ai due lati parlamentari del Pd). Al premier-tecnocrate per eccellenza succede comunque uno sperimentato parlamentare ed ex ministro Pd: Enrico Letta. Un esecutivo formalmente politico mantiene tuttavia un elevato tasso di tecnici non eletti in posizioni-chiave: Fabrizio Saccomanni al Mef (da Bankitalia), Annamaria Cancellieri alla Giustizia (prefetto, già agli Interni con Monti), Enrico Giovannini al Lavoro (dall’Istat), il tecnocrate Ue Ezio Moavero Milanesi, confermato agli Affari Europei nonostante l’insuccesso della candidatura con Scelta civica. Agli Esteri va Emma Bonino: reduce dalla commissione Ue (assieme a Monti) e dopo aver fallito nel 2013 la riconferma elettorale al Senato.

Questo governo ibrido in meno di un anno finisce vittima di una crisi extra-parlamentare, legata ad un aggiustamento interno al Pd, svoltosi peraltro sotto l’occhio attento del Quirinale (qui, nel frattempo, è stato rieletto Napolitano). Matteo Renzi, sindaco di Firenze e mai eletto in Parlamento, viene indicato al vertice del Pd ai chioschi delle primarie. Alla sua formale designazione come segretario del partito coincide la sua ascesa come ennesimo premier “non eletto”.

Renzi resta in carica tre anni con una maggioranza formalmente di centro-sinistra, benché sostenuta in misura decisiva dai dissidenti di Forza Italia capeggiati da Denis Verdini. Nel suo esecutivo la quota di non eletti decresce sensibilmente: al Mef c’è il “tecnico di area” Piercarlo Padoan, allo Sviluppo va l’industriale Federica Guidi (le succederà Carlo Calenda, un non eletto di Scelta civica).

Con Paolo Gentiloni, chiamato a Palazzo Chigi dopo la sconfitta di Renzi al referendum istituzionale, al vertice dell’esecutivo torna un parlamentare di lungo corso, ministro degli Esteri nello stesso governo Renzi. Il suo governo resta in carica durante la campagna elettorale 2018 e la lunga gestazione dell’esecutivo gialloverde (di quel periodo è ad esempio l’intervento della Cassa depositi e prestiti in Tim per contrastare la francese Vivendi, contemporaneamente impegnata in una scalata a Mediaset).

Dopo il voto 2018 – è ancora cronaca – la presidenza del Consiglio viene infine affidata a Giuseppe Conte: un giurista privo di ogni esperienza politica e di governo. Nell’imminenza del voto politico M5s lo preconizza al ministero della riforma della pubblica amministrazione. Lo affiancano, come vicepremier, i leader dei due partner della maggioranza gialloverde: Luigi di Maio e Matteo Salvini. Nel governo retto da un “non politico” riemergono i “non parlamentari”: Giovanni Tria al Mef, Moavero agli Esteri. Alla Difesa va Elisabetta Trenta, ufficiale della riserva, non eletta nelle liste pentastellate. “Tecnici di area” sono Marco Bussetti al Miur e Sergio Costa all’Ambiente.

Se un nuovo governo dovesse ora essere pilotato da un non eletto sarebbe il quarto caso su sei in otto anni: nel corso dei quali l’Italia ha avuto un premier non eletto per tre giorni ogni quattro. Nel Paese, nel frattempo, si è votato solo due volte: alle scadenze di legge, mai in via anticipata. La legislatura 2008-2013 è stata segnata dalla frattura politico-istituzionale del 2011 che ha tolto dalla scena politica Silvio Berlusconi (premier per due legislature piene). Quella successiva è stata simile al quinquennio 1996-2001 (Prodi, D’Alema, Amato, conclusa con una secca sconfitta del centrosinistra).

Francia, Germania, Gran Bretagna non hanno mai avuto un premier non eletto (a Berlino Annegret Kramp Karrembauer è addirittura entrata nel governo Merkel per legittimare le sue ambizioni di cancellierato), e nel più antico regime liberale del mondo – così come nella giovane democrazia spagnola – le snap-election sono prassi consolidata nella vita politica: vi è ricorsa Theresa May e ora Boris Johnson ci sta pensando in abbinata al Brexit.

È invece la Commissione Ue che continua ad avere un presidente senza legittimazione effettiva da parte dell’europarlamento, dopo l’ultimo fallimento clamoroso del tentativo di collegare le candidature “di punta” per Bruxelles al voto democratico degli elettori europei. È cosi, fra l’altro, che sia la Commissione che il Parlamento di Strasburgo hanno chiamato al loro vertice esponenti di partiti perdenti sia all’ultimo voto Ue, sia alle ultime consultazioni nazionali: Ursula von der Leyen (Cdu-Ppe) e David Sassoli (Pd-S&D).