Non facciamoci mancare nulla. Nemmeno un maestro dell’horror alla Stephen King poteva immaginare uno scenario più torbido per far esplodere una crisi di governo: una guerra per ora senza sbocco, la concreta minaccia del razionamento del gas a partire dall’autunno. E ancora: l’inflazione da costi che scuote l’Europa mentre oltre Oceano la corsa dei prezzi, stavolta motivata dalla pioggia di liquidità immessa nel sistema, impone una cura da cavalli sui tassi, con la prospettiva di esportare recessione in giro per il pianeta.
In questa cornice una crisi di governo rappresenta il classico harakiri. E poco conta l’obiezione che l’Italia non è certo l’unico Paese a metà del guado, visto lo stato di crisi del Regno Unito, le difficoltà di Macron e quelle della Germania post Merkel. Per almeno due motivi:1) nessuno può seriamente pensare che, vigente questa legge elettorale, dal voto possa emergere una svolta, o comunque un quadro di governo più convincente della squadra capitanata da Mario Draghi. 2) la crisi italiana presenta elementi peculiari di incertezza che fanno del Bel Paese il bersaglio privilegiato dei bond vigilantes, ovvero quegli operatori specializzati nel trarre vantaggio dalle anomalie delle finanze pubbliche colpendo le obbligazioni di Stato ogni volta che si manifesta uno stato di debolezza.
Chiediamoci perché nessuno va all’assalto degli Oat francesi, nonostante le pressioni della sinistra su Macron ed una bilancia commerciale ben peggiore di quella italiana. O perché la Spagna vanta uno spread ben migliore del nostro nonostante un tasso di inflazione a doppia cifra ben più inquietante del nostro. E perché passa in secondo piano la tenuta dell’economia italiana che chiude il secondo trimestre con un tasso di crescita del 2,9%?
No, non è questione di complotti. Contro l’Italia gioca una radicata sfiducia. Si sa che, a costo di sacrificare lo sviluppo, in qualche maniera il Tesoro farà fronte al costo del debito, destinato comunque a crescere. Ma, una volta uscito Draghi da palazzo Chigi, la pressione dei partiti per un aumento delle spese si farà sentire alla vigilia di un anno elettorale. E non mancano i focolai di protesta che si nascondono dietro i disagi veri o presunti.
I mercati prendono semplicemente atto che nel 2023 il Bel Paese avrà la performance peggiore dell’Ue. Per più motivi, tra i tanti la difficoltà di tradurre in risultati concreti gli sforzi per ammodernare il Paese. La crisi politica colpisce i piani del Pnrr in un momento cruciale in cui si passa dall’enunciazione all’apertura dei cantieri. Rischia di venir meno un passaggio chiave, in grado di innescare un processo di crescita a medio temine. A complicare il quadro, poi, sono i tempi della crisi. L’uscita di scena di Draghi precederà di poco l’annuncio del piano anti-spread della Banca centrale europea, concertato a Francoforte nonostante l’ostilità della Bundesbank per garantire all’Italia un’arma efficace per fronteggiare i mercati. Ma cambiare il capitano della squadra alla vigilia della partita (che si annuncia tosta, viste le tensioni euro/dollaro e l’aumento dei tassi Usa) ha davvero il sapore della follia.
Non è il caso di elencare le tante altre ragioni che avrebbero dovuto consigliare prudenza e buon senso: dall’aiuto, speriamo non voluto, alla politica di Putin alla concertazione con le parti sociali. Altri l’hanno fatto in maniera più che efficace. Vale la pena però sottolineare che si sta perdendo un’occasione per dimostrare che l’Italia è un Paese alla ricerca della normalità, capace di non farsi piegare dai roghi della malavita a Roma o dalle truffe sull’ecobonus.
Il vero spread riguarda la fiducia, insomma. Altro che complotti.
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