Nel 1973 uscì una raccolta di saggi dal titolo Small is beatiful dell’economista britannico E.F. Shumacher che acquistò immediata fama e per lungo tempo le sue indicazioni furono seguite in economia. Il lavoro dava evidenza al ruolo delle imprese minori o anche piccole e medie imprese nel sistema economico rispetto a quello delle grandi imprese; il contesto socioeconomico fu di particolare rilevanza nel dare alle imprese minori una ruolo chiave imprenditoriale in anni nei quali l’intero sistema economico e monetario stavano cambiando, creando improvvisamente un dinamica quasi ingestibile dalle imprese, specie quelle maggiori.



Fino al 1971 vi era stata una stabilità assoluta nel mondo economico e negli scambi monetari grazie agli accordi di Bretton Wood del 1945, che avevano dato certezza e stabilità al sistema dei cambi; le grandi imprese formulavano piani e strategia a vent’anni, convinte dell’immodificabilità delle variabili del sistema. Quando nel 1971 Nixon dichiarò la fine del gold exchange standard si venne a creare una tempesta monetaria acuita dalla generata crisi energetica del petrodollaro; tutto prese a muoversi molto velocemente, appesantendo le grandi imprese condannate a fare l’elefante nel giardino. Così in quegli anni il piccolo diventò bello per la sua maggiore adattabilità ad un mondo in un continuo ed imprevedibile movimento. In Italia in particolare il dramma delle grandi imprese diede una spinta allo sviluppo e alla crescita delle piccole, favorita anche dalla svalutazione della lira a causa degli effetti inflattivi generati dalla tempesta monetaria che, abbattendo i costi per l’export, ci fece diventare i primi “cinesi” d’Europa. L’evidenza emerge dai grafici fra crescita del Sud che si avvicina al Nord fino al 1971, per poi staccarsi nuovamente dopo; le piccole e medie imprese del Nord avevano ripreso a correre ma le cattedrali nel deserto al Sud soffrivano di immobilità.



Le grandi imprese, poco alla volta, riuscirono a sciogliere i tanti nodi che le immobilizzavano e presero un crescente potere, anche grazie alla finanza, più propensa a cavalcare le grandi imprese che non le piccole.

Oggi, a distanza di cinquant’anni da quel periodo di cambiamenti rapidi ed imprevedibili, sembra che si sia tornati ancora una volta al “piccolo è bello”, perché le circostanze in cui oggi si opera sono ridiventate rapidamente imprevedibili, soprattutto nelle grandi imprese, specie in quelle che sembravano più innovative; nella Silicon Valley (Amazon, Google, Apple, Facebook, Twitter, etc.) i licenziamenti si susseguono a migliaia ogni singolo giorno, accompagnati dalla brusca caduta dei relativi corsi azionari che riportano l’euforia finanziaria alla realtà.



Le piccole e medie imprese italiane rappresentano un unico non ripetibile in altri Paesi e nel mondo globale, perché sono figlie della nostra storia fatta di artigianato, individualismo creativo e sensibilità sociale. Il tessuto socioeconomico fatto da queste imprese rappresenta la spina dorsale del Paese ed i numeri che le rappresentano sono di assoluto riguardo a dimostrazione del loro ruolo e delle loro importanza nel traghettare l’Italia in questo indescrivibile caos. Le classificazioni – piccole, medie, micro – cambiano a seconda del range numerico scelto per collocarle, ma si mantiene un parallelo pur nelle diversità dei range; le piccole e medie imprese rappresentano il 92% delle imprese attive, l’82% degli occupati totali, un fatturato di oltre 2.400 mld di euro pari al 41% del Pil del Paese ed il 48% dell’export, e un terzo degli investimenti. Tra esse vi sono aziende ad alta innovazione e nel complesso dal 2010 al 2019 sono cresciute del 6,5%, una percentuale di gran lunga superiore alla media Ue mostrando una maggiore produttività.

La realtà italiana è fatta da una storia scritta dagli artigiani e dalle imprese famigliari che rimangono tali anche di fronte a crescite dimensionali; si forma un legame profondo quasi inscindibile tra impresa e proprietà che non esiste da altre parti, come negli Usa, in cui un’impresa può sempre essere ceduta a fronte di un prezzo vantaggioso. Esiste nel nostro Paese un sistema duale tra grandi e minori imprese che convivono tra di loro anche tramite forme di competizione collaborativa che fa crescere entrambe. Per questo risulta abbastanza sterile il dibattito sul piccolo che non diventa grande rispetto a una storia che ha premiato il nostro sviluppo industriale duale collocando un Paese in gran parte privo di materie prime ma non di cervello e creatività, tra quelli a più alta industrializzazione in mezzo a giganti che guardano a noi sempre con rispetto.

Il governo che deve affrontare la difficile storia del nostro tempo ed un suo rilancio non può prescindere dalla sua storia e dalla consapevolezza che la flessibilità  del Paese in condizioni avverse si gioca proprio sull’elasticità adattiva delle piccole e medie imprese: esse consentono al sistema un adeguamento meno traumatico rispetto alle grandi imprese, il cui fallimento porta a disastri sociali, mentre le piccole non falliscono tutte nello stesso tempo ma in modi e tempi diversi, consentendo al sistema di modificarsi con minori traumi sociali. Speriamo che nella manovra finanziaria non ci sia una colpevole mancanza di attenzione al ruolo delle imprese minori ed alla loro capacità di generare posti di lavoro di cui non possiamo fare a meno.

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