Se al mercato del lavoro, travolto dallo tsunami del coronavirus, sono stati lanciati dei salvagenti, la cui efficacia però è solo temporanea, a subire l’onda d’urto peggiore del lockdown è stata l’economia reale. In pratica, tutti i paesi sono stati costretti sulla difensiva, chiusi nell’angolo dall’emergenza sanitaria e con i guantoni ben alzati per proteggersi da una gragnuola di colpi pesantissimi, potenzialmente da k.o. “Ora si tratta di passare all’attacco” afferma Andrea Garnero, economista dell’Ocse che oggi interverrà con Enrico Letta all’incontro dal titolo «L’Europa di oggi: ostacolo per l’Italia o nuova opportunità?» organizzato dal Club de IlSussidario.net. Anche se le incognite non mancano: quanto durerà la recessione? Che forma assumerà? Quanto peserà l’inevitabile aumento del debito? L’unico punto fermo è che vanno messe in campo serie politiche di rilancio: “Sarà necessario accompagnare questa crisi – spiega Garnero – con investimenti mirati a favore di riconversione energetica, nuove infrastrutture, capitale umano. Sono tutte attività che potenzialmente hanno grandi ritorni e possono supportare la fase di ripresa, spendendo bene le risorse che si possono impiegare”. E l’Europa deve cambiare? Secondo l’economista dell’Ocse, “è inutile continuare ad accapigliarsi sugli interessi particolari. Bisogna lavorare per una coscienza più forte dell’interesse nazionale europeo, concentrando a livello Ue l’attenzione su alcune priorità”.
L’Italia è entrata nella fase 2, con gradualità. E’ il momento però di mettere in campo scelte di politica economica, che oggi mancano. Quali devono essere e perché?
Finora tutto quello che è stato fatto è servito solo a parare il colpo sferrato dall’emergenza coronavirus. Solo, si fa per dire, perché in un paio di mesi sono già state annunciate misure pari a 3-4 Finanziarie. Un impegno notevole, che va riconosciuto al Governo.
Sì, ma qui casca il problema dei problemi: la liquidità è solo sulla carta. Come far arrivare, e presto, i soldi all’economia reale?
Si parla molto di sburocratizzare le procedure, ma occorre fare un passo indietro: perché c’è tutta questa burocrazia?
La sua risposta?
Non c’è perché ogni volta qualcuno si è divertito ad aggiungere un comma, un foglio, una procedura. C’è stata e c’è ancora una richiesta di burocrazia perché in Italia è diffusa l’avversione al rischio ed è scarso il rispetto delle regole. Ecco perché si aggiungono norme su norme e sanzioni su sanzioni per minimizzare la possibilità che i furbi possano approfittarne. Così, con la montagna di regole che ci si è dati per bloccare i furbi, si sono bloccati anche gli onesti. Il problema di fondo è questo: la burocrazia non cade dal cielo, ma è la risposta a un disegno istituzionale farraginoso e a un’attitudine generale alla furbizia.
In tutti i paesi, finora, di fronte alla crisi c’è stata una risposta reattiva. E ora?
Ora si tratta di passare all’attacco, sapendo che restano sullo sfondo alcune domande senza risposta. A cominciare da che forma prenderà questa recessione.
Secondo lei?
Questa crisi all’inizio è nata come shock di offerta. Le imprese non potevano produrre perché o mancavano i pezzi e le forniture dalla Cina o i lavoratori cominciavano ad ammalarsi oppure sono state obbligate per legge a chiudere. In questo scenario gli strumenti standard di politica economica, fiscale e monetaria sono inefficaci: si possono distribuire tutti i soldi o effettuare gli investimenti che vogliamo, ma se le imprese sono inoperose, non serve a nulla.
Oggi è diverso?
Diventa, e lo diventerà sempre più nelle prossime settimane e nei prossimi mesi, uno shock di domanda. Uno shock purtroppo più grave, ma che conosciamo meglio e che si può contrastare con gli strumenti classici. Tuttavia, non abbiamo ancora la certezza che non si ripetano nuove fasi di lockdown, anzi forse dobbiamo metterle già in conto, magari a livello più locale che generale.
E non possiamo certo dimenticare che questa crisi colpisce in maniera eterogenea i settori produttivi…
Vero. Ci sono addirittura settori che hanno perso e che perderanno ancora, perché prima sono stati chiusi e adesso non avranno domanda, come il turismo, o il settore culturale-ricreativo, visto che teatri, cinema e luoghi di ritrovo rimarranno chiusi ancora per un bel po’. Questi comparti hanno bisogno di una certa tipologia di aiuto pubblico e di ripensare nuove modalità di offerta.
E per l’industria manifatturiera quale potrebbe essere lo schema per passare alla fase d’attacco?
Il problema è capire quanto profonda sarà la crisi. Se ci riprenderemo in fretta, molti shock – perché finora abbiamo davanti numeri drammatici mai visti prima – verranno riassorbiti velocemente. Ma c’è anche il rischio, o la probabilità, di riallineamenti generali: potrebbe capitare di essere penalizzati nelle catene del valore, e per l’Italia che è un paese esportatore sarebbe un grave danno, oppure potrebbe anche capitare che si torni a produrre più da noi che in Cina. Sarà quindi necessario accompagnare questa crisi con misure di sostegno ai lavoratori e a chi ha bisogno e con investimenti mirati a favore di riconversione energetica, nuove infrastrutture, capitale umano. Sono tutte attività che potenzialmente hanno grandi ritorni e possono supportare la fase di ripresa, spendendo bene le risorse che si possono impiegare.
Dove prendere i soldi, però, è il nodo principale. Come si possono finanziare la fase 2 e l’auspicabile fase 3?
In questi mesi mi ha fatto sorridere, anche se non c’è niente da sorridere, una cosa: mentre fino a prima della crisi Covid gli economisti allertavano sui rischi da debito eccessivo, soprattutto per l’Italia dove aumentava inesorabilmente, adesso che tutti sono ossessionati dalla crescita del debito gli economisti dicono: tranquilli, questo è l’unico momento in cui non dovete preoccuparvi. Ma un aumento del debito va messo in conto e può non preoccupare solo se i fondamentali vengono rimessi sui binari. Quindi, più che sul numeratore, lo stock di debito, bisogna intervenire sul denominatore, cioè il Pil e il suo tasso di crescita. Se la crisi sarà a “V”, questo surplus di debito verrà ammortizzato.
E se invece la ripresa fosse a “U” o peggio a “L”?
Fosse a “L”, si porrebbe un grosso problema. Credo però che al momento sia prematuro parlarne. A livello europeo, proprio per rispondere a questo problema, qualcosa si è fatto: sono stati messi in campo aiuti e soprattutto un segnale ai mercati.
E’ importante?
Come Draghi ha insegnato nei suoi anni alla guida della Bce, oltre a “fare”, è importante dimostrare che “si è pronti a fare”, con credibilità ovviamente: le aspettative sono essenziali.
Anche la Ue ha pronunciato una sorta di “Whatever it takes”?
Diciamo che la Ue ha preso una piega più positiva di quanto non fosse stato dimostrato all’inizio dell’emergenza coronavirus. Non dice mai “whatever it takes”, dice sempre: mettiamo in campo qualcosa, ma non tutto ciò che si può fare, e questo crea qualche incertezza e aspettative un po’ meno positive.
A proposito di Ue, la Commissione ha in mano un ventaglio di strumenti anti-crisi: Mes, Sure, fondi Bei, Recovery Fund. Bastano?
Che siano sufficienti, temo di no. Ma sono importanti e non sono poco rispetto ai dibattiti che hanno animato diversi paesi. Certo che l’unica istituzione europea che può mettere sul piatto i trilioni di euro, per far capire che qui non si scherza, è la Bce. Gli altri restano strumenti più limitati.
Ci sono alternative utilizzabili?
Parlare oggi di Eurobond non è fattibile. Sarebbe invece importante varare il Recovery fund con una significativa potenza di fuoco. E quanto al Mes, che ci dà 36 miliardi per la sanità, la domanda è: saremo in grado di spenderli bene?
Torniamo all’Italia, al debito e alla ripresa. Che cosa dovremo fare?
La via migliore sarebbe cancellare questo debito con la crescita, così da diluirlo e renderlo meno pesante. Da evitare, invece, la via facile del non ripagarlo. Ma è ancora troppo presto per ipotizzare il futuro e soprattutto bisogna stare attenti ai segnali che si mandano ai mercati e ai partner Ue del Nord Europa. Concentriamoci sulla priorità: bisogna riprendere a crescere, e questo si può fare anche con una serie di misure a costo zero.
E’ possibile mobilitare il risparmio degli italiani?
Sono anni che se ne parla, visto che abbiamo un elevato debito pubblico e, fortunatamente, anche una montagna di risparmio privato, che poi è tutto da vedere, perché in gran parte sono valori immobiliari poco liquidi e difficili da mobilitare. Sono però due parametri che dal punto di vista macroeconomico vanno considerati. E cosa significa mobilitare il risparmio degli italiani: più tasse, cioè trasferimento dal risparmio privato al debito pubblico, o repressione finanziaria, vale a dire obblighiamo gli italiani a investire solo in BoT o comunque a comprare debito nazionale? Lo trovo un argomento scivoloso e rischioso.
Alla luce di questa crisi, che cosa deve cambiare nella Ue e perché?
Per sintetizzare una risposta complessa direi: bisogna lavorare per una coscienza più forte dell’interesse nazionale europeo, concentrando a livello Ue l’attenzione su alcune priorità, come essere meno dipendenti dal resto del mondo su alcuni asset essenziali o essere più resilienti agli shock globali o regionali. E’ inutile accapigliarsi su interessi più particolari.
Il commissario Ue Valdis Dombrovskis ha detto che oggi, davanti a una crisi di tale portata, le regole Ue vengono sospese, ma dopo tutto tornerà come prima. Non crede che sia questo il momento giusto per rivedere i parametri di Maastricht e il Patto di stabilità?
Ci abbiamo messo mano anche nella crisi finanziaria iniziata nel decennio scorso, cercando dei parametri più intelligenti, perché quelli di Maastricht erano “stupidi” secondo una famosa frase di Prodi. Sono stati cercati criteri più dinamici, come l’output gap o calo potenziale, e ci si è resi conto che calcolarlo era molto complesso. Credo che qualsiasi indicatore aritmetico abbia i suoi limiti, se non c’è una convergenza politica di fondo. E il primo passo per superare il Patto di stabilità dovrebbe compierlo proprio l’Italia, mettendo fine per sempre all’idea che si possa vivere a debito come se niente fosse. Il problema di fondo, tuttavia, è che nell’Unione europea si confrontano e si scontrano visioni e modi di fare politica molto diversi. Torno perciò all’auspicio precedente: bisogna inquadrare queste differenze in un interesse nazionale europeo condiviso. Come Europa non possiamo più guardarci l’ombelico, visto che ormai il nostro continente è sempre più marginalizzato nel contesto del confronto tra Stati Uniti e Cina.
(Marco Biscella)
(2-fine)