Mentre è in corso il Consiglio europeo informale a Praga, c’è attesa per quello del 20-21 ottobre, soprattutto per capire se si riuscirà a ritrovare l’unità di azione tra i Paesi membri dell’Ue dopo lo “strappo” della Germania, che ha deciso di stanziare 200 miliardi di euro per aiutare imprese e cittadini contro il caro-bollette, e le divisioni sorte sulla proposta di uno “strumento mutualizzato” sul modello del meccanismo Sure avanzata dai Commissari Gentiloni e Breton. Per l’Italia sarà un momento importante, colpita com’è, come sottolinea Domenico Lombardi, economista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale, “da una triplice crisi: economica, demografica ed energetica. Servono quindi interventi ad ampio raggio, sia di breve periodo che strutturali, nella consapevolezza dei vincoli esistenti che impongono una strategia improntata alla massima responsabilità, anche fiscale”.



L’Ue sembra, però, incapace di arrivare a una strategia comune.

A fronte di una dinamica dei prezzi delle materie prime energetiche, soprattutto del gas, assolutamente unica, peraltro pre-esistente al 24 febbraio, l’Ue non è finora riuscita a concepire delle risposte all’altezza del momento eccezionale di crisi. Al tempo della pandemia, un’altra crisi altrettanto eccezionale, l’Ue è riuscita a dare una risposta importante: oggi, invece, stenta.



A cosa si deve, secondo lei, questa situazione?

Ci sono alcuni Paesi membri che sono più tiepidi rispetto a iniziative forti come l’introduzione di un price cap sul gas. Tra di essi c’è la Germania, che ha peraltro formulato un piano di emergenza che interviene a livello nazionale calmierando il prezzo dell’energia e rispondendo in tal modo alle forti preoccupazioni che sono arrivate al Governo dall’apparato produttivo, dove un numero sempre più crescente di imprese lamenta difficoltà finanziarie di eccezionale portata. Questo piano amplia però la distanza tra Berlino e una possibile iniziativa comune nell’Ue, che può essere legata sia a fondi raccolti a livello comunitario, sulla falsariga del Next Generation Eu, sia all’introduzione di un price cap sul gas.



Il price cap sul gas potrebbe essere davvero così importante?

Per un Paese come l’Italia, che importa il gas e ha minore spazio di manovra fiscale, il price cap rappresenta un intervento necessario, che deve essere formulato almeno in sede europea, perché il mercato dell’energia è internazionale e quindi non ha senso – né sarebbe efficace – un tetto nazionale. Tra l’altro, un’iniziativa di questo genere aumenterebbe la pressione sulla Russia, che continua a vendere gas in Europa, riempiendo quindi le sue casse. Tornando al piano tedesco, va anche detto che avrà delle ripercussioni favorevoli per l’Europa.

In che senso?

Nel senso che contribuirà a ridurre il prezzo dell’energia in Germania e, quindi, tenderà a mitigare la pressione al rialzo del prezzi per l’intera Eurozona, visto il forte peso dell’economia tedesca nell’Unione.

La Germania potrà comunque avere un vantaggio competitivo rispetto agli altri Paesi europei.

Con l’introduzione di un tale strumento, la Germania fa leva su un suo fattore di competitività, quello di avere un maggiore spazio fiscale rispetto ad altri Paesi. In questo caso, la politica fiscale viene utilizzata anche come fattore che accresce le competitività dell’apparato tedesco rispetto ad altri contesti produttivi penalizzati dall’esorbitante incremento dei prezzi dell’energia. L’Italia non ha questa flessibilità, quindi cerca di spingere, a ragione, su iniziative a livello europeo, mitigando l’impatto sul proprio bilancio pubblico.

La Commissione europea ha compreso la gravità della situazione, visto che nel discorso sullo stato dell’Unione Ursula von der Leyen ha detto che il Next Generation Eu è esattamente ciò di cui l’Europa ha bisogno in questo momento?

Chiaramente per la Commissione è difficile muoversi verso una soluzione comune quando il Paese più importante dell’Ue tende a formulare risposte su base unilaterale. Rispetto all’importanza del Next Generation Eu, il Pnrr rimane uno strumento fondamentale per l’Italia, ma, a maggior ragione in mancanza di ulteriori iniziative di respiro europeo, Bruxelles dovrebbe consentire, ai Paesi che lo richiedessero, di aggiornare in modo selettivo e strategico i propri Piani senza stravolgerne le finalità, ma per tenere conto di un quadro che è cambiato radicalmente rispetto al momento in cui sono stati formulati. Per il nostro Paese questo vorrebbe dire, in particolare, adeguare i bandi ai costi lievitati in modo significativo.

A proposito di Pnrr, c’è stato una sorta di botta e risposta a distanza tra Mario Draghi e Giorgia Meloni. La presidente di Fratelli d’Italia ha parlato di “ritardi del Pnrr evidenti”, mentre il premier ha spiegato che “non ci sono ritardi nell’attuazione del Pnrr”.

Il presidente del Consiglio ha enfatizzato il raggiungimento di obiettivi formali, sul cui conseguimento non c’è alcun dubbio da parte di alcuno, e quindi non ci può essere nemmeno una polemica. Giorgia Meloni si riferiva ad aspetti di sostanza del Pnrr, legati alla capacità di finanziare e scaricare a terra i progetti secondo le tempistiche originariamente concepite. Si tratta di un aspetto importantissimo, anche se, per ora, non ancora sotto il faro di Bruxelles. Se non si scaricano a terra i progetti, non ci sono gli investimenti e, quindi, l’impatto atteso sulla crescita e sull’occupazione sarà proporzionalmente ridotto. Inoltre, alcuni di questi progetti non sono addizionali e mitigano, quindi, ulteriormente l’impatto che i fondi del Pnrr dovrebbero avere sull’economia, sulle cui prospettive si intravede un deterioramento significativo. Credo dimostri in modo inequivocabile l’interesse a valorizzare il Pnrr, al di là degli aspetti formalistici legati all’ottenimento delle risorse a esso collegate. Si tratta di aspetti salienti, quelli rilevati da Giorgia Meloni, di cui il nuovo Governo si dovrà fare carico per stabilizzare le prospettive economiche.

L’Italia dovrà anche prestare attenzione alle mosse della Bce. Gli ultimi dati sui reinvestimenti dei titoli acquistati con i programmi Pepp e App, relativi ai mesi di agosto e settembre, hanno il segno meno per l’Italia.

Mentre a giugno e luglio gli acquisti netti di Btp erano stati elevati, anche rispetto ad altri Paesi dell’area, per quasi 10 miliardi di euro, nell’ultimo bimestre c’è stato un disinvestimento netto, sia pure molto contenuto. Occorrerà capire se quest’ultimo dato rientra in una più generica variabilità intertemporale delle politiche di riacquisto oppure se sia segnaletico di una diversa attitudine della Bce nei confronti delle politiche di riacquisto stesse, laddove cominci a prevalere l’obiettivo trasversale, non più selettivo, di drenare liquidità. Su questo aspetto la prossima riunione del Consiglio direttivo di fine mese sarà importante, anche perché nei mesi scorsi ci sono state alcune dichiarazioni sia di Isabel Schnabel, membro tedesco del board, che della presidente Christine Lagarde, che alludevano alla possibilità di riconsiderare le politiche di riacquisto.

Con l’obiettivo di contrastare più efficacemente l’inflazione.

Sì. Ritengo però che sia fondamentale anzitutto puntellare la stabilità finanziaria dell’intera Eurozona per poter conseguire poi l’obiettivo della stabilità dei prezzi. Nei giorni scorsi lo European Systemic Risk Board ha emesso la prima allerta, dalla sua fondazione nel 2010, sulla stabilità finanziaria dell’intera Unione Europea – appunto, dell’Ue, non solo dell’Italia – apparentemente passata inosservata sinora.

(Lorenzo Torrisi)

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