Le difficoltà del settore immobiliare cinese e il rischio di contagio sul sistema finanziario del Paese hanno introdotto nella discussione degli investitori il rischio di un “momento Lehman” per la Cina. Nelle ultime settimane i prezzi di molte azioni e obbligazioni cinesi sono crollate e negli ultimi giorni i timori hanno contagiato i principali listini occidentali. L’economia cinese si trova in una fase particolare perché le catene di fornitura globale si stanno ristrutturando e si spostano da quella che è stata per decenni la fabbrica del mondo.



Il ruolo della Cina viene assorbito da altri Paesi asiatici, in particolare dall’India e, in parte, qualche produzione rientra nei Paesi occidentali. L’India attua il suo miracolo industriale anche grazie al petrolio e al gas russi spinti dalle sanzioni fuori dall’Europa. La Cina deve far fronte ad alcune delle tendenze demografiche più sfavorevoli al mondo dopo decenni di “politica del figlio unico”. Si prevede che la popolazione cinese possa perdere 400 milioni di persone entro il 2080, da 1,4 miliardi attuali, e sostanzialmente dimezzarsi nel 2100. Questi trend difficilmente si conciliano con un boom dei prezzi immobiliari.



C’è un secondo elemento che riguarda la Cina e il resto delle economie globali: l’aumento dei tassi di interesse fa emergere le cattive allocazioni di capitale e mette a nudo attività che potevano reggere solo grazie a tassi di interesse infimi. Questo vale per la Cina e per moltissime altre economie. Meno di sei mesi fa la Fed è stata costretta a intervenire d’urgenza per tamponare la crisi delle banche regionali americane che tra gli attivi avevano finanziamenti a settori e imprese insostenibili con tassi di interesse normali. L’immobiliare sta alla Cina come le start-up californiane all’America. È un fenomeno che ognuno è in grado di comprendere proprio grazie al settore immobiliare. Più sono alti i tassi di interesse, meno deve costare la casa perché l’acquisto sia sostenibile e viceversa. Qualche decennio di tassi eccezionalmente bassi ha creato valori e capitali fragili.



>Oggi la crisi cinese, dell’immobiliare e forse del suo sistema finanziario, prende la forma di una svalutazione dello yuan che contro il dollaro arriva ai minimi degli ultimi quindici anni. Il crollo della valuta cinese insieme al rallentamento dei consumi, visibile negli ultimi dati del colosso americano della grande distribuzione “Target”, esercita una forza deflattiva; le catene di fornitura si stanno ristrutturando e si spostano dalla Cina, ma questo è un processo lungo e il Paese asiatico ha ancora il primato della capacità produttiva. Difficile prevedere la profondità e la durata di questa crisi. È molto più facile guardare oltre. Se i tassi si alzano parte della capacità produttiva inefficiente cinese, ma non solo, dovrà chiudere e questo può solo avere un effetto inflattivo che si somma a quelli imposti dalla transizione energetica, dalla ricostituzione di parte della capacità in paesi con costi più alti e dai cambiamenti demografici che spingono al rialzo i salari perché il numero di nuovi entranti sul mercato del lavoro è inferiore alle uscite.

Negli ultimi dodici mesi questo è almeno il terzo episodio di volatilità sui mercati dopo quello del mercato delle obbligazioni statali inglesi e quello delle banche regionali americane. Probabilmente nello scenario attuale più che un’eccezione è una regola.

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