L’importanza della relazione tra famiglia e casa è stata certamente confermata in modo quasi plastico durante il lungo lockdown cui sono stati costretti gli italiani. Chiusa in casa per lunghe settimane, ogni famiglia ha dovuto fare i conti con la tenuta delle relazioni tra i propri membri, e la qualità delle abitazioni è stata decisiva, nel favorire spazi di socialità e momenti di privacy e di isolamento, nel consentire agevolmente attività comuni o nell’impedirle (una cucina minuscola impedisce di “pasticciare insieme”…). Molto spesso le case sono diventate una vera “dimora”: non puro spazio fisico, non solo “un tetto sulla testa” o solo mura protettive, ma anche spazio che favorisce e protegge le relazioni, gli affetti, le emozioni.
La casa ha però anche una potente valenza economica e patrimoniale, oltre che relazionale, soprattutto nel nostro Paese, dove la maggiore tendenza alla proprietà dell’abitazione si collega, più che in altri Paesi, anche con l’obiettivo di trasmissione intergenerazionale dei risparmi di una vita a favore delle generazioni future. È un indiscutibile valore economico, rilevante sia per le scelte economiche delle singole famiglie, sia in quanto settore economico dal forte impatto sull’intero sistema Paese.
Per questo sono particolarmente preziosi i dati dell’indagine Nomisma 2020 sulle famiglie italiane, che fanno emergere tre elementi principali, tra loro anche discordanti, oltre che per certi versi sorprendenti, che confermano il processo di crescente disuguaglianza socio-economica in atto da anni nel nostro Paese, e che la crisi economica innescata dalla pandemia rischia di accentuare ulteriormente.
In primo luogo, la propensione all’acquisto di un’abitazione per le famiglie italiane si mantiene apparentemente su livelli simili rispetto a quelli dello scorso anno (2.447.700 le famiglie interessate all’acquisto); ma se si incrocia la percezione del futuro con le concrete condizioni reddituali delle famiglie, le famiglie intenzionate all’acquisto di un immobile si riducono a 625.900 (non poche, peraltro).
In secondo luogo, cresce la domanda potenziale delle famiglie che si stanno già muovendo per cercare un’abitazione, dall’1,9% (pari a 494mila famiglie nel 2019) al 2,1% (549mila famiglie nel 2020). Incremento per certi versi sorprendente, sorretto probabilmente da una pianificazione dell’acquisto precedente la pandemia.
Diminuiscono leggermente, invece, più prevedibilmente, le intenzioni di acquisto di un’abitazione nei prossimi 12 mesi, passando dal 7,6% al 7,3% (1,9 milioni di famiglie). Le intenzioni d’acquisto sono soprattutto di famiglie giovani (sotto i 44 anni), desiderose di migliorare la propria condizione abitativa e che presentano un reddito stabile, ma anche da famiglie che, per effetto della pandemia, hanno subìto un peggioramento delle proprie condizioni finanziarie – e vogliono operare un “downsizing”, un ridimensionamento del capitale immobilizzato nell’abitazione.
In terzo luogo, ed è il dato che maggiormente svela la presenza di criticità economiche in una parte non marginale delle famiglie italiane, la quota di famiglie che negli ultimi 12 mesi ha accumulato ritardi nel pagamento dell’affitto è passata dal 9,6% del pre-Covid-19 al 24% durante le misure di contenimento: una famiglia su quattro. Un’evidenza che trova prevedibile conferma anche nelle aspettative per i prossimi 12 mesi, per i quali oltre il 40% delle famiglie prevede di avere difficoltà a pagare puntualmente il canone d’affitto. Del resto, per il 54,4% delle famiglie – erano il 58% lo scorso anno – l’affitto è scelto a causa della mancanza di risorse economiche sufficienti per poter accedere al mercato della compravendita.
La casa, così preziosa per il benessere delle famiglie, così decisiva nel consentire il successo della Fase 1 nel contrasto al contagio, rimane per molte famiglie un bene di lusso, che mette spesso in discussione scelte economiche e livelli di reddito, evidenziando un’ampia area di vulnerabilità economica familiare che rischia di diventare impoverimento vero e proprio con la pandemia, che di fatto approfondisce il divario: alcuni non sono toccati dalla pandemia (nemmeno sul bene casa), mentre i più fragili patiscono ripercussioni “anche” rispetto alla casa.
Ciò è confermato – quasi ironicamente – anche dal fatto che le intenzioni di ristrutturazione nei prossimi 12 mesi si mantengono elevate anche nel 2020, passando dal 20% al 24% delle famiglie (pari a 6,2 milioni), sicuramente anche in forza di politiche di incentivazione/agevolazione fiscale, che anche l’applicazione del Decreto potrà ulteriormente rilanciare, arrivando a coinvolgere più di 12 milioni di famiglie. Sono le famiglie che hanno conservato le proprie disponibilità economiche, e che quindi possono investire ulteriormente nella qualità abitativa – mentre molte famiglie rimarranno nella vulnerabilità economica anche rispetto alla propria casa.
Serve probabilmente un approccio diverso, più legato alle esigenze delle famiglie reali che non ai modelli economici teorici di rilancio dell’economia, per far sì che gli investimenti nel settore abitativo, pur doverosi, non generino ulteriori disagi, disuguaglianza e vulnerabilità socio-economica in un numero crescente di casi.
Ma questo purtroppo pare un difetto strutturale di troppe delle misure adottate nel Decreto Rilancio, che ha inseguito singole nicchie di attività economiche con interventi spezzettati, senza mai ricomporre strategie unitarie attorno alla famiglia: che è non solo un ammortizzatore sociale, ma il primo decisore economico di spesa, risparmio e investimento. E sulla casa questo è ancora più evidente.
Anche per questo sarebbe ora di capire che “solo se riparte la famiglia, riparte l’Italia”.