“Il lavoro nobilita l’uomo” diceva Charles Darwin. Un invito ad “andare a lavorare” dovrebbe, pertanto, essere apprezzato dal destinatario perché lo si esorta ad una attività facendo la quale, nobilitandosi, diventa migliore. Evidentemente non la pensano così la premier Giorgia Meloni e il presidente della Regione Campania De Luca che, in un loro recente dialogo a distanza che è assurto all’onore delle cronache, hanno usato (e a loro volta percepito) il concetto non proprio per fini di reciproca edificazione. Con buona pace dell’art. 1 della sacra Costituzione e del fondamento della nostra malandata repubblica.
I protagonisti della italica vita politica dovrebbero sapere che se l’uso del verbo “lavorare” in alcuni contesti può far salire momentaneamente la temperatura della (spicciola) polemica, in altri è oggetto di tensioni e preoccupazioni, soprattutto dove “lavorare” è una dimensione non proprio consolidata. Al Sud, per esempio. Non è questo il luogo per analisi che fotografano una realtà che è sotto gli occhi di tutti; anche perché, per chi ha il problema di mettere il piatto a tavola per sè e per i suoi, le analisi stanno a zero. I dati parlano chiaro. Nel 2023 c’è stato un incremento delle crisi di impresa del 4,3% (107.698 per l’esattezza). Il dato è raffrontato con quello del 2019, ultimo anno non influenzato dall’impatto economico della pandemia e degli interventi statali di sostegno. Il 55% di queste crisi riguarda il Sud; se si considera che il tessuto industriale del Mezzogiorno è molto meno “denso” rispetto a quello del centronord, numeri del genere rendono l’idea di una progressiva desertificazione industriale ed imprenditoriale dell’Italia al di sotto del Garigliano.
E’ la naturale conseguenza di una industrializzazione spesso confinata nel limbo delle buone intenzioni; basti pensare alle tante aree individuate dagli strumenti urbanistici locali come P.I.P. (piani di insediamento produttivo) che sono state utilizzate soprattutto per la realizzazione di centri commerciali e la dislocazione di concessionarie di automobili che, per carità, mettono comunque in moto una economia ma che con la realtà industriale non c’entrano nulla.
Le mitologiche “politiche del lavoro” non sono solo una questione di occupazione, salari, bilanci di impresa, ammortizzatori sociali e sussidi di varia natura. Hanno il fiato corto se non sono anche strettamente legate all’idea di presente e, soprattutto, di futuro di un territorio. Facciamo un esempio concreto. Poniamo che in un tessuto socioeconomico non già propriamente industrializzato, si stabilisca la chiusura di uno stabilimento di produzione di fibra ottica con elevati contenuti di qualità tecnologica unica in Europa. Eppure il gruppo industriale cui appartiene è tutto italiano e una delle principali committenti è una società “in house” del Mimit (Ministero delle Imprese e del Made in Italy); nonostante ciò, lamentano i sindacati, si è deciso che per la posa dei cavi in fibra ottica nel paese (l’Italy!!!) può bastare approvvigionarsi all’estero (India e Cina in testa) con prodotti più scadenti ma che hanno il (solo) vantaggio di essere più economici; ne consegue fatalmente che questa fabbrica deve mettere in cassa integrazione ben 300 dipendenti che rischiano di rimanere senza lavoro, senza contare l’indotto.
Caliamo questa vicenda in una zona afflitta, come tante aree del sud, da una emigrazione giovanile per la quale tanti, laureati e non, tirati su con tanti sacrifici dalle loro famiglie, vanno a lavorare al nord Italia quando non all’estero. La stessa zona è anche oggetto di una immigrazione non proprio controllata e che sicuramente non può, per ovvi motivi, sostituire nell’immediato, quanto a qualifiche e preparazione, la popolazione che parte. Che sarà di questo territorio da qui a dieci anni?
E’ evidente che la salvaguardia dei livelli occupazionali è legata non solo al sacrosanto diritto al lavoro ma anche all’idea del presente e del futuro di una intera area, di cui la politica (quella che deve decidere perché deputata a tanto da chi le ha espresso il consenso) non riesce a formulare una benchè minima ipotesi. La vicenda che abbiamo raccontato è, purtroppo, concretissima e tocca il sangue e il cuore, oltre che il portafoglio, dei dipendenti della FOS (Fibre Ottiche Sud), azienda di Battipaglia del Gruppo Prysmian, produttrice di fibra ottica di alta qualità, che corre il concreto rischio di vedere chiusi i battenti alla faccia della tecnologia d’avanguardia e delle transizioni digitali in nome della mera convenienza economica. Tutto ciò in un contesto nel quale la chiusura di questo stabilimento avrebbe nel medio termine dei contraccolpi sul territorio non facili da assorbire.
A sostegno delle vicende umane dei lavoratori della FOS, prima ancora dei politici, registriamo la presenza di don Luigi Piccolo, parroco di molti di questi cassaintegrati; nell’assenza di risposte concrete al problema, non ha avuto esitazioni nell’affiggere a lettere cubitali sui muri della sua parrocchia le parole che S. Paolo VI rivolse agli operai delle acciaierie di Taranto nella notte di Natale del 1968: “Lavoratori, che ci ascoltate, Gesù, il Cristo, è per voi! “. Per chi deve assumersi la responsabilità di prendere le decisioni, forse deve scendere in campo l’intera Trinità! E chissà se basta.
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