C’è un’insidia sotterranea che, come una talpa, sta scavando sotto le fondamenta dell’economia agroalimentare italiana, e non solo, rischiando di farla sprofondare, con effetti nefasti anche per i consumatori. Se ne parla poco, perché appunto non si vede, ma rincari e difficoltà di approvvigionamento dei fertilizzanti – di cui Russia, Ucraina e Bielorussia sono tra i maggiori produttori ed esportatori – potrebbero creare seri danni all’85% delle produzioni agricole, con pesanti conseguenze su disponibilità e prezzi allo scaffale. Le prime avvisaglie si vedono già su grano e verdure fresche.
“In un anno – spiega Massimiliano Giansanti, presidente di Confagricoltura – il prezzo dell’urea, il fertilizzante più comune a livello mondiale, è schizzato da 300 euro a tonnellata a punte massime anche di 1.400 euro, viaggiando comunque su una media attorno ai mille euro a tonnellata, più di tre volte tanto”. L’effetto sulle imprese agricole? “Gli agricoltori oggi sono davanti a un bivio: o producono in perdita o chiudono: il 10% potrebbe non superare questa fase critica acuta”.
I rincari e la carenza di fertilizzanti sono uno dei problemi meno conosciuti dal grande pubblico, ma anche uno dei più seri. Quali sono i concimi che più scarseggiano? E quali coltivazioni sono maggiormente a rischio?
Le coltivazioni maggiormente a rischio sono tutte, nessuna esclusa.
Addirittura?
Certo. E il motivo è presto detto: fatte salve le coltivazioni biologiche, che in Italia valgono comunque solo il 15% del totale, percentuale che comunque è tra le più alte d’Europa, il restante 85% fa ricorso, come in tutto il mondo, ai fertilizzanti.
Quali vengono utilizzati?
Se ne utilizzano di diversi tipi, ma nessuna impresa agricola può rinunciare alla matrice principale che è l’azoto. Nelle sue varie forme l’azoto viene estratto dalla lavorazione del gas, perché si parte dall’ammoniaca. E in questo ambito le principali compagnie che operano nella produzione e commercializzazione dei fertilizzanti fanno riferimento ad aziende russe o bielorusse.
Dopo sei mesi di guerra in Ucraina, com’è oggi la situazione?
Già dall’autunno 2021, quando si intravvedevano le prime avvisaglie di un’emergenza che poi è scoppiata in tutta la sua gravità, i prezzi delle commodities agricole avevano iniziato a salire, compresi i costi energetici. E abbiamo registrato un aumento significativo dei principali fertilizzanti.
Quanto sono saliti i prezzi?
Prendiamo ad esempio l’urea, che è il fertilizzante più comune a livello mondiale, generalmente preso come riferimento. In un anno il prezzo è schizzato da 300 euro a tonnellata a punte massime anche di 1.400 euro, viaggiando comunque su una media attorno ai mille euro a tonnellata, più di tre volte tanto.
Gli effetti?
Con questi costi elevati le imprese agricole vanno incontro a enormi difficoltà di approvvigionamento. Tenga conto che un agricoltore mediamente, per un campo di grano, deve utilizzare 400 chili di urea: rispetto a un anno fa, anziché sostenere un costo di 120 euro per ettaro, oggi ne deve sborsare anche 500-600 euro. Senza dimenticare l’impatto finanziario.
Quale?
Le imprese agricole lavorano generalmente con linee di credito, ma gli affidamenti avvengono non sulle quantità di prodotto, ma in valore: aumentando il prezzo del fertilizzante, diminuiscono sensibilmente le quantità acquistabili.
Come hanno ovviato le imprese a queste difficoltà?
Si sono orientate verso nuovi mercati di fornitura, soprattutto in Africa, dove però al momento non si trova la stessa qualità che offre la produzione russa.
A quali problemi vanno incontro le imprese agricole italiane?
Attualmente le aziende agricole stanno subendo un mix micidiale: oltre al nodo dei fertilizzanti, devono fare i conti con l’andamento climatico che le costringe a ricorrere a irrigazioni d’emergenza per limitare gli effetti della siccità. Ma per irrigare ci vuole l’energia: ma gas, elettricità o gasolio oggi costano da due a tre volte in più. A tutto questo poi va aggiunto il problema della mancanza di manodopera. Oggi molte imprese agricole sono nella condizione di produrre e vendere sottocosto e questo non è un modello percorribile ancora a lungo. Anche perché il modello produttivo dell’agricoltura non può fermarsi mai, non è pensabile chiudere un giorno sì e uno no per risparmiare energia: i cicli della natura non possono essere interrotti.
Si corrono rischi di chiusura delle attività?
Gli agricoltori oggi sono davanti a un bivio: o producono in perdita o chiudono. Secondo un’indagine del Crea, oggi il 10% delle aziende agricole italiane rischia di non riuscire a superare questa fase critica acuta. Ma se il trend folle dei rincari continuerà, questo numero è, inevitabilmente e drammaticamente, destinato ad aumentare.
Ci sarà un forte impatto anche sul carrello della spesa?
Ovviamente, perché questi rincari hanno un effetto a caduta sul prezzo del grano e a cascata sui prezzi della pasta o del pane. E altrettanto accade per le verdure e per tutto il resto.
I consumatori quest’autunno potrebbero anche non trovare alcuni prodotti al supermercato?
A causa della siccità quest’anno si è già raccolta in Italia una quantità considerevolmente minore di cereali e quindi per produrre pasta o pane si rende necessario un maggior ricorso ai prodotti importati. E questo vale anche per le verdure fresche. Con il rischio che paesi come Spagna o Portogallo, in cui i costi dell’energia per il settore primario sono molto più bassi che da noi, possano conquistare quote di mercato e indurre le catene della grande distribuzione italiane ad approvvigionarsi da loro, perché potranno mettere a disposizione prodotti più convenienti.
Che cosa chiedono le imprese agricole al governo per fronteggiare questa emergenza legata alla carenza dei fertilizzanti?
Abbiamo chiesto al governo che quando si va in giro per il mondo a cercare nuove forniture di gas lo si faccia anche per l’approvvigionamento dei fertilizzanti. Oggi una quota viene prodotta in Africa e speriamo che nel dialogo aperto fra la Farnesina e alcuni Paesi dell’Africa centrale e occidentale si possano contrattualizzare nuove forniture a favore del nostro mercato. E poi chiediamo che venga stabilizzata una tassa sull’utilizzo dei fertilizzanti per promuovere la ricerca in questo campo.
L’Italia ha due siti produttivi, a Ferrara e a Rho, nel Milanese, per la produzione di fertilizzanti. Sono anch’essi in difficoltà?
Sono due ottime aziende che fanno ottimi prodotti, ma sarebbe auspicabile che fosse incrementata la produzione nazionale di fertilizzanti, anche perché l’Italia vanta una buona tradizione nella chimica in agricoltura: in passato siamo anche stati tra i principali produttori.
Il problema non è solo italiano, ma europeo: la mappa delle carenze e delle mancate produzioni tocca diversi paesi Ue. Che cosa dovrebbe fare Bruxelles sul fronte dei concimi?
Innanzitutto, dobbiamo togliere, là dove possibile e trovando le risorse necessarie tra le pieghe del bilancio europeo, la quota dei dazi imposti sull’import di fertilizzanti che arrivano da Russia e Bielorussia, per far sì che gli agricoltori non debbano subirla. In secondo luogo, varare un programma di acquisti comuni, a livello europeo, dei fertilizzanti, per impedire che, nel caso questa emergenza perdurasse o peggiorasse, i Paesi più forti possano comunque avvantaggiarsi rispetto ai più deboli: dobbiamo evitare ad ogni costo una guerra fra poveri in Europa per contenderci i fertilizzanti disponibili. Infine, favorire sempre di più modelli di agricoltura di precisione, sfruttando le opportunità che il digitale offre, così da permettere agli agricoltori di poter intervenire sempre più spesso con le quantità – di energia, di acqua, di fertilizzanti… – davvero necessarie.
(Marco Biscella)
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