È l’economia che fa la mentalità o è la mentalità che fa l’economia? Sono passati più di cento anni da che Max Weber, dopo il suo viaggio negli USA nel 1904, pubblicò il suo celebre saggio L’etica protestante e lo spirito del capitalismo, dimostrando, malgrado le successive, numerose critiche da parte degli storici, come il modo di pensare possa incidere sulla gestione dell’economia e su ciò che sta alla sua origine, che il padre della sociologia riconosceva, non a caso, nei Paesi di tradizione calvinista.



Contro Marx (e contro una parte del pensiero liberale) Weber vi spiegava la nascita del capitalismo dallo spirito di imprenditorialità come derivante dalla dottrina calvinista della predestinazione e dalle virtù puritane: parsimonia, laboriosità, puntualità, precisione, attivismo e successo economico come segni della “benedizione” divina. Nella prospettiva calvinista, secondo Weber, “le buone opere sono assolutamente incapaci di servire come mezzi per conseguire l’eterna beatitudine” ma sono comunque, in particolare il lavoro, “segni d’elezione e, dunque, strumento non per acquistare la salvezza, ma per liberarsi dall’angoscia di non conseguirla”.



Ora, al di là delle inevitabili semplificazioni storiche, il merito di questa analisi sta nell’aver colto la connessione stretta tra la mentalità, in tutti i suoi fattori e nello specifico quelli di origine religiosa, e l’attività economica, dimostrando come la cura di quest’ultima dipenda strettamente dalla cultura (in senso antropologico) che la precede e la accompagna. È una constatazione che risulta attualissima e che demolisce un certo economicismo, oggi sostenuto soprattutto da parte neoliberale prima ancora che dai residui del modello marxista. A dirlo, in maniera eloquente, è l’evidente e irrazionale tracollo dell’economia europea e, in particolare, di quella tedesca, che non è spiegabile solo con fattori economici. È un tema di cui questo quotidiano si è a più riprese occupato che può essere sintetizzato in almeno due riferimenti molto attuali: un errore di prospettiva nella politica green che non ha motivazioni economiche, ma ideologiche; e la sottomissione anche culturale al modello USA (versione Biden), con una linea guerrafondaia sul conflitto ucraino che fa dell’Europa Occidentale e della Germania un alunno che, in questo caso, è tanto ossequioso del suo maestro-padrone da essere davvero “più papista del papa”. Ma, si sa, i tedeschi, a differenza degli italiani, sono per loro natura ubbidienti … Vedremo, a questo punto, che cosa succederà dopo le elezioni americane, in cui la vittoria di Trump, osteggiata al massimo dai padroni del pensiero, tanto in Germania che in Italia, può rappresentare non solo una svolta radicale in politica estera, ma anche un salutare scossone.



Del resto, i media di sistema europei stanno ancora ampiamente demonizzando la figura di Trump, con punte che, ancora una volta, toccano i livelli estremi di sottomissione proprio in Germania, dove il settimanale Der Spiegel usa per Trump il termine “Diktator” (che non ha bisogno di traduzione) e Stern quello di “Teufel”, “demonio”, che chissà cosa mai vorrà significare nell’ampiamente secolarizzata mentalità tedesca di oggi. Sul piano religioso, in linea si dimostra il vescovo luterano e presidente della chiesa evangelica bavarese, Bedford-Strohm, che, un paio prima di giorni prima delle elezioni USA, era arrivato a dichiarare: “nel caso di una vittoria di Trump dovrò pregare a lungo” (e non sarebbe male, in ogni caso). Più prudente risulta, almeno ai paralleli e più alti livelli ufficiali, la gerarchia della Chiesa cattolica tedesca, forse perché troppo presa dal cosiddetto “cammino sinodale” e dalle spaccature che esso va producendo.

Intanto, al di là del manicheismo con cui guardano alle elezioni americane, i media tedeschi non possono più ignorare la spaventosa crisi economica e occupazionale che sta investendo la Repubblica Federale, solo in rari casi cogliendone peraltro il risvolto e i presupposti culturali. E infatti lo “scossone”, come prevedibile, sta arrivando, con il ministro delle Finanze Christian Lindner (FDP) che ieri è stato licenziato da Scholz dopo avere parlato apertamente di fine della coalizione “semaforo” e della necessità di nuove elezioni. Mettiamoci anche la guerrafondaia ministra verde Baerbock, che è andata in visita a Kiev proprio alla vigilia delle elezioni USA, a garantire “sostegno granitico” nella fornitura di armi all’Ucraina (non vi ricorda il “patto d’acciaio”?) e ora si trova un pochino spiazzata. Va bene l’ubbidienza – forse meglio se non proprio cieca e assoluta –, ma è qui che l’insegnamento di Weber torna di attualità: prima dello Stato e prima dell’economia, o quanto meno parallelamente a essi, servono dei riferimenti ideali che sostengano la convivenza civile e facciano anche da stimolo imprenditoriale per lo sviluppo di una società. Giusto per non ondeggiare qual piuma al vento… È l’idea del pre-politico, che è, poi, anche pre-economico: “Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire”, scriveva il giudice costituzionale Ernst-Wolfgang Böckenförde. Ma dove trovare oggi questi presupposti?

L’idea liberale di un’economia che si fa da sé va palesemente a cozzare contro i condizionamenti esterni, ovvero le decisioni di politica internazionale prese altrove, e con le pregiudiziali ideologiche, che vanno da un modello che si pretende green alla grave mancanza di una propria consapevolezza identitaria. In sintesi: per sapersi muovere nelle situazioni di crisi, bisogna domandarsi chi si è e dove si vuole andare. Danilo Taino, in un suo editoriale sul Corriere della Sera del 30 ottobre scorso, constatava la crisi in atto in Germania dopo l’era Merkel: “La Germania è sottosopra, il governo guidato dal suo successore Olaf Scholz vacilla, l’esercito è di latta, la Volkswagen vuole chiudere degli stabilimenti nel Paese”; e accusava il cosiddetto modello Merkel – gas russo a basso costo e porte aperte alla Cina – indicandolo come la causa della crisi, per la Germania e per noi. Quel che si dimentica, e al Corriere capita di frequente, è chiarire perché, in termini di puro profitto economico, quel modello sarebbe sbagliato.

In realtà, Frau Merkel si è mossa con prudenza millimetrica, forse eccessiva, proprio nell’interesse della Germania, ben sapendo di non poter toccare più di tanto certi centri di potere sovranazionali. Invece di accusare il suo operato, con tutti i suoi condizionamenti storici, non sarebbe meno ipocrita ammettere apertamente che l’unico criterio, ahinoi, a guidare l’economia europea siano gli interessi degli Stati Uniti sulla base di rapporti di forza economica, politica e militare? E, per coerenza, smettere con la finzione di motivazioni democratico-umanitarie applicate con ampia discrezionalità? Ma, allora, se le cose stessero così, la svolta non potrebbe invece venire da una nuova consapevolezza di che cosa significhi essere europei, ciascuno con la propria storia e identità?

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