Nessun apparente progresso nella disfida Renzi-Conte, tranne la difesa contiana di Massimo D’Alema: non si manda via da Palazzo Chigi “l’uomo più popolare del Paese per fare un favore a quello più impopolare”, ha detto ieri l’ex premier a Repubblica. Per D’Alema una crisi non conviene a nessuno e una soluzione si troverà. Di tutt’altro avviso Arturo Parisi, ideatore dell’Ulivo insieme a Romano Prodi e suo braccio destro nei due governi di centrosinistra del professore bolognese.
La ricetta di Parisi è molto semplice. Serve “l’appello ai cittadini perché scelgano tra progetti alternativi di futuro per l’Italia in competizione tra loro”. Cioè il voto. “Non mi sembra che negli Usa la pandemia abbia impedito le elezioni” dice Parisi al Sussidiario. E il presidente della Repubblica, se vuole servire i cittadini, è chiamato ad interpretare questa parte. Con due postille: il ritorno al Mattarellum e la condizione che anche una soluzione “disperata” come quella dell’unità nazionale sia rigorosamente a tempo, cioè contenga “l’indicazione di un ritorno al voto”.
L’impasse nel governo non sembra sbloccarsi. “Presto si tornerà a parlare d’altro”, come ha detto D’Alema?
Non credo proprio. Il nodo politico che è al centro della crisi era atteso al pettine da molto prima della pandemia. La pandemia ci ha solo distratti, e per un po’ illuso chi si voleva illudere che la vittoria trionfale del governo sul Covid-19 sarebbe stata più che sufficiente a scioglierlo. Invece eccolo di nuovo qui. Lo stesso nodo che ha accompagnato fin dall’inizio l’improvvisato varo del Conte 2.
Qual è questo nodo politico?
L’assenza di una coalizione politica a sostegno dell’azione di governo, non una coalizione accomunata dalla paura di una sconfitta elettorale, ma unita da un progetto per – e sottolineo il “per” – la riforma del Paese, che prospettando un futuro desse forza al presente. E come causa ed effetto di questa assenza, la mancanza di una leadership che prospetti, guidi e unisca la coalizione attorno ad un progetto. Un progetto che nell’Italia d’oggi, ed ancor più in questa imprevista drammatica stretta, non può che essere un progetto di lunga, lunga durata.
Per la prima volta da settembre 2019 siamo di fronte ad una possibile, vera discontinuità. Conte sembra in angolo e non ha i numeri, perché l’operazione “responsabili” sembra tramontata prima di cominciare. E Renzi pare seriamente intenzionato a logorarlo. Secondo lei come andrà a finire?
Male. Questa è la mia paura. Il rifiuto a priori anche del solo rischio di finire ad elezioni, e per di più per motivi descritti come ignobili…
Scusi, sarebbero?
Il salvataggio di tutte le mensilità di stipendi previste in una legislatura completa. Altro che mettere a rischio la gestione della pandemia!
Prego, continui.
Quel rifiuto aprioristico ci priva dell’unica discontinuità che in democrazia ha un pieno titolo: l’appello ai cittadini perché scelgano tra progetti alternativi di futuro per l’Italia in competizione tra loro. Invece, esattamente come sedici mesi fa, piuttosto che dar vita ad un confronto con la C maiuscola sui problemi del Paese, solo per evitare il rischio di elezioni siamo qua a pasticciare sul modo in cui assicurare la continuità, deludendo la necessità di discontinuità progettuale che i sostenitori del presente governo pretendono all’origine di un esecutivo visibilmente scadente.
Renzi si è detto sicuro che al voto non si va. Nel Pd dicono che il suo è il classico bluff del giocatore d’azzardo. E se invece avesse un patto con l’unico che decide davvero sul voto, il Quirinale?
Mi faccia fare la mia parte, quella di cittadino semplice che prima che ai “si dice” dei retroscena preferisce guardare a quello che si vede sulla scena, e che pensa al futuro del Paese, cioè al suo futuro personale e a quello dei suoi figli piuttosto che a quello dei singoli politici. La stessa parte che peraltro è chiamato ad interpretare il Presidente della Repubblica.
E che cosa vede, non da retroscenista ma da cittadino?
È vero, la partita in corso fin dall’inizio di questo governo è una tipica partita politica, una competizione e una contesa che riguarda il “chi”. Senza guardare al comportamento dei singoli contendenti, da Renzi a Conte e degli altri che hanno voce in commedia, non si capisce nulla. E nulla si capisce se non si guarda alle regole istituzionali che governano la contesa. Le regole depositate nelle istituzioni istituite, e quelle derivanti dall’interpretazione che di esse danno i contendenti. E lo dico con rispetto, senza cedimenti qualunquistici.
Che cosa direbbe, alla luce di questa premessa?
In politica la definizione di “chi” è alla guida è una questione serissima e spesso pregiudiziale. E serissima è la contesa relativa a chi abbia titolo alla guida. Ma l’importante è che la competizione tra i contendenti, al di là delle motivazioni o pulsioni personali, riguardi il “che cosa”, le risposte da dare alle domande che ci pone la Storia. E le domande si danno quando ci vengono rivolte.
Quindi, professore?
Quindi bisogna dare una risposta chiara ai problemi sul tavolo con scelte chiare. Non mi sembra che negli Usa la pandemia abbia impedito le elezioni. Così come non ha impedito di svolgerle a Paesi democratici nel pieno di una guerra. Ancor più quando il contenzioso riguardava l’individuazione del nemico o il modo di condurre la guerra.
Dunque la strada maestra è il voto. Due ultime questioni. Come vede l’ipotesi di un governo di unità nazionale? Sarebbe una strada seria, oltre che percorribile, per dare un esecutivo al paese?
No. La strada maestra è un confronto il più serio possibile, aperto quindi all’eventualità che ci si debba rivolgere ai cittadini qualora gli attuali loro rappresentanti non riescano a convergere su scelte adeguate alla sfida del momento. Guai se si approdasse a soluzioni pasticciate solo per evitare il voto. Come è stato detto da molti e ultimamente ribadito da Prodi, questo non è tempo di mediazioni, ma più che mai un tempo di scelte. Come ci hanno ricordato recentemente persone autorevoli come Cassese, Gentiloni e appunto Prodi, se le scelte non le facciamo noi, potrebbero farle altri al posto nostro. Nulla è scontato. Il treno europeo può passare invano.
“Non è tempo di mediazioni”, lei dice. Ma perché la formula dell’unità nazionale sarebbe necessariamente pasticciata?
Unità nazionale! Vorrei misurare attentamente il suo spessore. Di certo è un bel parlare. Ma lei pensa che le scelte che non riesce a fare questa maggioranza riescano più facili decise da tutti? Siamo sempre lì. Le scelte, il progetto, la sua esecuzione. E il tempo lungo, lungo. Dentro quale futuro affrontare il presente. Se fosse in gioco soltanto l’emergenza pandemica come vicenda sanitaria potrei pure capire. Ma qui, in connessione con la congiuntura pandemica e prima e oltre, dobbiamo di nuovo interrogarci su quale Italia vogliamo. Una domanda che non ci poniamo più soltanto noi, ma che ci viene ogni giorno di più posta da altri.
Ultima questione. Si è più volte fatto il nome di Mario Draghi come risorsa di ultima istanza per l’Italia: sia a Palazzo Chigi, sostenuto da un governo di larghe intese o di unità nazionale, sia come possibile ministro dell’Economia. Nemmeno questo è uno schema credibile?
Lei dice bene: “risorsa di ultima istanza”. Ma io preciserei: con in premessa un riconoscimento largo dell’incapacità delle attuali forze politiche di sbloccare la situazione, e la contemporanea indicazione della prospettiva di un ritorno al voto. E, senza sorpresa per nessuno, aggiungerei, previa la reintroduzione di una legge elettorale di tipo maggioritario, quale fu un tempo il Mattarellum. Altrimenti, col ritorno prospettato al proporzionale, saremmo presto da capo.
Una battuta finale?
Brutto segno quando la speranza coincide con la disperazione.
(Federico Ferraù)