L’economia americana sembra essersi lasciata alle spalle il picco dell’inflazione e l’Unione europea si appresta a fare lo stesso, come dimostrerebbero i dati di novembre che hanno registrato un calo passando dallo 10,6% di ottobre al 10%, ma le aspettative di inflazione non sembrano dipendere più dal comportamento delle Banche centrali. Imprese e consumatori, su entrambe le sponde dell’Atlantico, sono convinti che l’inflazione è destinata a crescere, in ogni caso.



La tipologia di inflazione, di natura strutturale, dovrebbe convincere i Governi a intraprendere una strategia industriale basata su investimenti produttivi, lasciandosi alle spalle la stagione delle politiche di stampo monetarista, poiché una politica monetaria restrittiva e alti tassi d’interesse hanno un impatto recessivo interrompendo, cioè, il flusso di capitali di cui necessitano i Paesi e le imprese che intendono affrontare l’epocale salto di paradigma produttivo ed energetico che ci attende nei prossimi anni. Un contesto che sembra riproporre la storica contrapposizione fra monetaristi e keynesiani, i quali invitano i Governi a non ripetere gli errori fatti dopo le crisi petrolifere del 1973 e 1979, quando l’inflazione che seguì l’incremento dei prezzi delle materie prime fu fronteggiata aumentando i tassi di interesse e deprimendo gli investimenti che sarebbero serviti per adeguare gli impianti produttivi e avviare le economie dei Paesi più avanzati alla transizione energetica, che proprio negli anni Settanta iniziava a diventare centrale nel dibattito economico.



Ma le cose sono più complicate di allora. Un recupero tout court di Keynes sembra difficile per diverse ragioni. Una nuova Bretton Woods al momento è solo una fantasia degli economisti e, a meno che non si decida di declinare in senso puramente “autarchico” il ritorno dello Stato in economia, non si capisce con quali strumenti si possa intervenire per inaugurare una nuova stagione di politica fiscale e industriale. A riguardo, il caso dell’Unione europea è emblematico. Se è vero che il Next Generation Eu segna un cambio di passo per la politica economica dell’Unione Europea, il suo piano d’azione sembra condizionato da un’impalcatura istituzionale pensata soprattutto per garantire la stabilità del sistema dei prezzi e agire sul piano finanziario garantendo semplicemente l’accesso al credito alle imprese in difficoltà. Un tipo di intervento che non basta in una crisi strutturale. Semplificando al massimo, senza un nuovo ordine economico globale è difficile immaginare una nuova stagione keynesiana.



Del resto, il ritrovato protagonismo dello Stato in economia sembra riproporsi nelle forme di un ritorno al protezionismo, che nel caso europeo potrebbe riservare spiacevoli sorprese. La questione della scarsità delle risorse strategiche e delle materie prime – indotta o strutturale poco cambia – e la questione del debito non hanno risposte né risolutori e rischiano di far rientrare dalla finestra le politiche economiche di stampo conservatore e neoclassico. La colossale montagna del debito alimentato da consumatori impoveriti, le crescenti differenze sociali e le difficoltà del settore finanziario richiederebbero più attenzione da parte dell’opinione pubblica.

Recentemente è stato il “solito” Nouriel Rubini a notare che nell’economia mondiale il debito pubblico e privato complessivo in relazione al Pil è passato dal 200% del 1999 al 350% del 2021. Al momento il rapporto è del 420% nelle economie avanzate e del 330% in Cina. Negli Stati Uniti è del 420%, un dato maggiore di quello registrato dopo la Grande Depressione e la Seconda guerra mondiale. Dati che fanno pensare a una nuova contrapposizione fra Paesi creditori e debitori – o forse sarebbe il caso di dire fra più e meno indebitati in cerca di qualcuno a cui lasciare il cerino in mano – i cui esiti fanno pensare a un quadro a tinte cupe.

I debiti contratti dalle famiglie servono a mantenere consumi al di sopra delle proprie possibilità e l’incertezza radicale di questa fase scoraggia le imprese dal fare investimenti indipendentemente dalla promessa di nuovi ed enormi investimenti in infrastrutture. In un quadro del genere in cui per ragioni di varia natura i Governi non vogliono o possono avviare una politica fiscale restrittiva l’unica carta giocabile è quella della monetizzazione del debito operata dalle Banche centrali, come in una sorta di paradossale gioco dell’oca in cui si torna alla prima casella. Un’opzione destinata a dimostrarsi insostenibile, soprattutto quando le urgenze dell’economia reale non potranno essere più obliate.

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