L’inflazione continua a crescere in Europa e la Bce ha già in programma un primo rialzo dei tassi in questo mese di luglio. Non si sa ancora, invece, quale forma avrà il cosiddetto scudo anti-spread, su cui Joachim Nagel ha già espresso alcune perplessità. Per il Presidente della Bundesbank, infatti, “sarebbe fatale se i Governi presumessero che alla fine l’eurosistema sarebbe pronto a garantire condizioni di finanziamento favorevoli agli Stati”. Dal suo punto di vista, “è solo in situazioni eccezionali e in condizioni limitate che possono essere giustificate misure insolite, e limitate nel tempo, di politica monetaria contro la frammentazione”.
Dietro all’ennesimo rialzo dell’inflazione, ci spiega Massimo D’Antoni, professore di Scienza delle finanze all’Università di Siena, «c’è il concorso di molti fattori: alle difficoltà di far ripartire e riorganizzare l’offerta dopo due anni di pandemia si è sommato l’aumento dei prezzi dell’energia e di altre materie prime determinati dalla guerra in corso. Anche le politiche pubbliche, a partire dalla liquidità immessa nell’economia negli scorsi anni per continuare con le manovre di stimolo contribuiscono certamente a spiegare l’aumento dell’inflazione».
Il picco dell’inflazione sembra non sia stato raggiunto in Europa: questo potrebbe spingere la Bce a rafforzare il percorso annunciato di rialzo dei tassi sull’esempio della Fed?
Capisco la preoccupazione delle autorità monetarie, che vogliono evitare che si inneschi il circolo vizioso delle aspettative inflazionistiche, per cui l’aumento dei prezzi è alimentato dall’attesa degli aumenti. D’altra parte, sappiamo che la situazione è delicata, resto convinto che la priorità sia riavviare la crescita e manovre monetarie troppo energiche potrebbero avere effetti molto negativi. Per tanti anni abbiamo considerato normale un’inflazione inferiore al 2%, ma non sta scritto da nessuna parte che un’inflazione un po’ più alta sia un dramma, purché si eviti, come dicevo, una spirale inflazionistica.
Non c’è il rischio che, ancor più che negli Stati Uniti, si arrivi in Europa a una recessione causata da una stretta monetaria?
A questo mi riferivo, la difficoltà è nel fatto che una stretta monetaria potrebbe mettere in crisi molte realtà produttive che stanno sul filo della sopravvivenza e per le quali un aumento del costo di accesso al credito potrebbe essere fatale. Vale la pena di ricordare che le politiche antinflazionistiche non sono interventi indolori, passano necessariamente per un raffreddamento della domanda e quindi dell’attività economica. È pur vero che i dati sembrano indicare una minore tendenza inflazionistica in Europa rispetto agli Usa, per cui non è detto che la Bce debba seguire per forza la linea della Fed.
Non è ancora chiaro come sarà e come funzionerà lo “scudo anti-spread” della Bce. Questo può lasciare tranquillo un Paese ad alto debito come il nostro?
Per l’appunto, tra coloro che potrebbero entrare in sofferenza per un aumento del costo del debito ci sono anche gli Stati fortemente indebitati. Uno Stato con alto debito pubblico ha ragioni ulteriori per andarci piano con le politiche di restrizione del credito, perché l’effetto è un aumento del servizio del debito. La speranza è che la Bce tenga adeguatamente conto di questo rischio. Entriamo nel solito tema: pur nella comune difficoltà le condizioni dei diversi Stati europei sono diverse e non esiste la politica che accontenti tutti quanti. C’è chi considera l’inflazione il peggiore dei mali, e chi come noi deve tenere conto maggiormente dei costi delle politiche antinflazionistiche. Va anche detto che, finché permane una situazione in cui l’inflazione italiana resta inferiore a quella di Paesi come la Germania o l’Olanda, ci sono anche effetti positivi.
A cosa si riferisce?
Non dimentichiamo che uno dei problemi che avevano innescato la crisi debitoria del 2010-11 era stata la perdita di competitività nei primi anni dell’euro, dovuta alla maggiore inflazione nei Paesi mediterranei rispetto all’area tedesca. Per anni si è detto che, in assenza della valvola rappresenta da un aggiustamento del cambio, serviva un recupero di quello squilibrio. Insomma, c’è un interesse comune dei Paesi dell’area euro, ma ci sono anche degli ovvi motivi di divergenza. Bisogna capire dove si collocherà l’equilibrio all’interno del board della Bce e quale capacità avrà chi guida la banca centrale di mandare un segnale chiaro ai mercati, bisogna dire che non sempre su questo hanno brillato.
Come si può contrastare la perdita del potere d’acquisto dei redditi in questa fase di forte salita dell’inflazione?
La situazione è assai variegata, ci sono settori che stanno andando bene, altri che stentano a partire. Anche riguardo ai prezzi, l’aumento è concentrato su certi beni, in particolare i prodotti energetici. Azioni di sostegno alle famiglie con reddito più basso sono desiderabili, anche se, e qui forse dirò una cosa impopolare, l’aumento dei prezzi dell’energia rappresenta anche una forte spinta ad adottare comportamenti più orientati al risparmio energetico. La benzina oltre i 2 euro giustamente ci impressiona, ma rappresenta anche un incentivo a utilizzare forme di mobilità alternative al mezzo privato. I sostegni dovrebbero alleviare le condizioni di sofferenza delle famiglie meno abbienti, ma senza eliminare del tutto il potente effetto di incentivo rappresentato dai prezzi. Per questo servirebbero politiche di ben più largo respiro, a cominciare da un potenziamento del trasporto pubblico, che andrebbe migliorato e reso realmente conveniente. L’occasione sarebbe il Pnrr, mi chiedo se ci stiamo muovendo realmente in quella direzione.
Una soluzione che viene indicata da alcuni partiti e parti sociali riguarda il taglio del cuneo fiscale. Può essere questa la risposta al problema?
Si potrebbe anche pensare a interventi temporanei sul lato fiscale, ma personalmente sono un po’ scettico sull’utilizzo delle imposte per finalità congiunturali e di breve periodo. Il nostro sistema fiscale ha bisogno di essere aggiornato nella sua architettura di fondo, ci manca solo l’ennesimo intervento estemporaneo a renderlo ancor meno coerente.
Un intervento sul cuneo fiscale sarebbe certamente più efficace se strutturale: occorre rimettere mano al progetto di riforma fiscale, il cui ddl delega è stato recentemente approvato dalla Camera?
Se parliamo di una riduzione strutturale della tassazione per i redditi più bassi, che aumenti la capacità redistributiva del sistema, si tratta certamente un obiettivo condivisibile, ma è difficile realizzare un tale obiettivo entro un sistema in cui ormai ogni categoria di reddito ha il suo regime speciale e si è perso il senso del disegno complessivo. Purtroppo, come già hanno notato in tanti, e come ho già rilevato in una precedente intervista con voi, il Ddl delega non affronta i nodi strutturali, ma si limita a qualche aggiustamento marginale. Un’occasione perduta, purtroppo.
L’inflazione sta anche facendo crescere il gettito Iva: ci sono dunque margini per altri interventi che diano “sollievo” agli italiani alle prese con i rincari?
L”inflazione sta facendo crescere il gettito dell’Iva in proporzione all’aumento dei prezzi, ma in proporzione il carico fiscale non cambia. È vero però che nel caso di altre imposte l’inflazione può determinare un aumento del gettito in termini reali. Si tratta di un problema che non abbiamo da molti anni, noto come fiscal drag.
Di che si tratta?
Se tutti i prezzi e i redditi aumentano, alcune imposte espresse in termini nominali diventano in proporzione più pesanti anche se, quanto a potere d’acquisto, il reddito degli individui non è in effetti aumentato. Cioè: non sono diventato più ricco ma pago più imposte. È un effetto che a fine anni Settanta e primi anni Ottanta determinò un aumento significativo della pressione fiscale. Sarebbe necessario allora rivedere una serie di parametri che definiscono le imposte, a cominciare dai limiti degli scaglioni. Un tema di riflessione per il Governo e il Parlamento.
(Lorenzo Torrisi)
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