Esattamente come dodici mesi fa, in questi giorni stanno franando le aspettative d’inflazione di medio periodo. L’anno scorso l’esplosione dei prezzi registrata in autunno era ufficialmente un fenomeno temporaneo legato alle riaperture e destinata a rientrare nel breve termine. Invece, l’inflazione ha macinato nuovi massimi per tutto il 2022 e le banche centrali hanno dovuto alzare i tassi a ritmi che non si vedevano da decenni.
Oggi la versione ufficiale assume una diminuzione dell’inflazione a partire dalla seconda metà del 2023 e poi, nel 2024, dati in linea con i numeri visti fino alla prima metà del 2021. Questa convinzione sta venendo meno e i rendimenti delle obbligazioni statali europee e americane salgono; significa che il mercato posticipa la fine delle politiche restrittive delle banche centrali o l’inizio di quelle accomodanti e allo stesso tempo che l’inflazione rimarrà alta più a lungo di quanto si ritenesse all’inizio di dicembre.
La Cina in questi giorni non solo riapre, ma si appresta a stimolare l’economia con un pacchetto di stimoli fiscali che vale il 3% del Pil; la sua banca centrale continua con una politica monetaria accomodante e a immettere liquidità nel sistema. Negli Stati Uniti la politica fiscale rimane estremamente espansiva, il deficit rimane sensibilmente più alto delle medie storiche e il bilancio della Federal Reserve è ancora vicino ai massimi. Oltre a questa spinta si aggiunge quella della ristrutturazione delle catene di fornitura globale che spinge la domanda di macchinari, beni strumentali e materie prime; occorre costruire nuovi impianti, nuove fabbriche e questo richiede risorse. Caterpillar proprio ieri ha dato forma a questo scenario dicendo agli investitori che la domanda per attrezzature per costruzioni, estrazione, trasporti e generazione di energia rimane forte.
È la fotografia di un mondo che si ristruttura. Le catene di fornitura lunghe o lunghissime e estremamente efficienti vengono meno per le tensioni geopolitiche, le guerre commerciali e quelle combattute. In questo scenario la sicurezza delle proprie forniture non può dipendere dai “mercati globali” e gli Stati si muovono di conseguenza. Infine, un crescente numero di Paesi toglie dai commerci internazionali quote di produzioni fino a poco tempo fa destinate all’esportazione. Per diminuire la pressione inflattiva interna ed evitare crisi sociali gli Stati produttori varano blocchi alle esportazioni per far diminuire i prezzi interni.
La somma di politiche fiscali espansive di Cina, America e non solo che si vedono in queste settimane e della ristrutturazione delle catene di fornitura globali che si acuisce con il prolungamento dei conflitti spinge l’inflazione. L’incremento dei prezzi non colpisce tutti allo stesso modo. Chi riesce a mantenere la propria economia e la propria produzione industriale in crescita si può permettere incrementi dei salari che a loro volta difendono il potere d’acquisto delle famiglie. Chi controlla in tutto o in parte le materie prime ha margini di flessibilità.
In questo quadro l’Europa è in assoluto la regione più fragile. Non ha più il rapporto con il “suo” fornitore di materie prime; la Russia che occupa un sesto delle terre emerse è difficilmente sostituibile. I rapporti con i Paesi mediorientali e mediterranei che potrebbero rappresentare una risposta sono in crisi. La difesa del tasso di cambio dell’euro senza una strategia economica indipendente e adatta al nuovo scenario non può bastare nell’attuale scenario. L’Europa non può o non vuole accorgersi che è cambiato tutto e che le basi della sua prosperità sono sotto una minaccia crescente.
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