Nel corso degli ultimi mesi le cronache dei media Usa hanno dedicato largo spazio alle battaglie per introdurre il sindacato nei depositi di Amazon e nelle caffetterie di Starbuck, punte di diamante delle rivendicazioni salariali del dopo Covid-19. Agli occhi di Wall Street il fenomeno, motivato dal pieno impiego, comporta un pericolo mortale: l’esplosione dell’inflazione. 



Certo, l’impennata dei prezzi, oggi come negli anni Settanta, nasce da cause esterne: lo shock petrolifero del 1973, seguito alla guerra del Kippur, gli effetti devastanti del Covid-19 che ha profondamente colpito l’organizzazione del lavoro dell’economia mondiale, tra blackout dei porti, interruzione delle forniture (vedi i chips) e le disgrazie legate alla guerra, carenza di cibo in testa. Ma questi focolai di carovita si tramutano in una minaccia grave solo quando danno vita a una raffica di richieste di aumenti in busta paga. È in quel momento che s’innesca la rincorsa prezzi/salari, una delle piaghe più temute dalla dottrina economica con il rischio di degenerare in stagflazione, la contemporanea presenza di stagnazione dell’economia e dell’inflazione, che per i consumatori Usa vuol dire innanzitutto benzina oltre i 4 dollari al gallone.



La Federal Reserve, dopo un colpevole ritardo. ha preso atto che il grande nemico era tornato a insidiare il reddito degli americani. Di qui gli annunci di drastici interventi sui tassi, per assorbire l’enorme liquidità immessa nel sistema per neutralizzare gli effetti della pandemia. Di qui, per la prima volta dopo tempi immemorabili, la banca centrale Usa ha preso una serie di provvedimenti contro l’ascesa delle Borse, con l’obiettivo di metter sotto controllo l’inflazione. 

La manovra, pur morbida, ha provocato un calo del 27% del Nasdaq, ma ha anche provocato grossi effetti nell’opinione pubblica in generale. Nel giro dell’ultimo mese sono crollate le quotazioni e gli abbonamenti a Netflix così come gli acquisti presso Amazon. Anche i grandi magazzini come Wal-Mart hanno pagato un alto prezzo alla nuova tendenza: la gente continua a comprare, ma è molto più attenta ai prezzi – i ricavi tengono, ma a danno dei profitti. I negozi della classe media, da Abercrombie & Fitch a Gap, subiscono perdite memorabili sul listino (attorno al 15%), volano i negozi cheap, come Dollar Tree (+21%) dove si fa la spesa con pochi spiccioli. 



Agli occhi dei guru dei mercati l’indicazione che emerge è chiara: l’inflazione non è affatto sconfitta, ma in contemporanea è già emerso il pericolo opposto: la recessione, cioè la caduta degli acquisti, ovvero il vero motore della crescita per un’economia basata sui consumi quale è quella a stelle e strisce. Di qui la svolta del mercato obbligazionario: i rendimenti dei Bond, a differenza di quanto successo nell’ultimo anno, non seguono l’andamento delle azioni, ma il loro calo per ora lieve riflette la previsione di un’economia in rallentamento. Sarà in grado la Fed di gestire entrambe le tendenze, cioè la guerra all’inflazione e la difesa della crescita? 

Molti ne dubitano. L’aumento dei tassi, destinato a proseguire nei prossimi mesi, probabilmente provocherà una recessione. Sarà breve, si spera, in attesa di ripartire su basi più solide nella seconda parte del 2023. Ma non sarà un’impresa facile: si tratta di scendere dall’8% al 2%, mica una passeggiata. 

La situazione è profondamente diversa in Europa. Nel Vecchio continente non si vedono per ora tensioni salariali. L’impennata dell’inflazione dipende esclusivamente dai costi in formidabile ascesa delle materie prime, gas ma non solo. A lungo le “colombe” della Bce si sono opposte ad aumenti del costo del denaro, sostenendo che la leva monetaria serve ben poco a fronte di fenomeni reali da affrontare con interventi di economia reale. Ma l’Ue, che pure ha dimostrato nei confronti della Russia uno spirito combattivo inedito, non ha una forza sufficiente per mettere in atto un policy efficace, divisa com’è tra la prudenza franco/tedesca, la combattività dell’Est e del Nord Europa e l’eccezione Ungheria. Di qui la decisione di procedere a un rialzo dei tassi a luglio, ma di dimensioni modeste, che dovrebbe servire da monito alle forze sociali senza però compromettere i tanti, fragili equilibri della finanza pubblica (Italia, in particolare) e la tutela di settori che, sotto i cieli di guerra e la minaccia del Covid, rischiano di chiedere nuovi aiuti. 

Sarà dunque un’estate calda per l’Europa: i “falchi” sostengono che non esiste rischio recessione, Al contrario l’aumento dei tassi porterà beneficio ai risparmiatori. L’Italia fa gli scongiuri: se, come è avvenuto finalmente nel 2021, il tasso di crescita dell’economia sarà superiore a quello del deficit/Pil, la ripresa continuerà. Altrimenti ci affacceremo al 2023, anno di elezioni, con il solito carico di assurde proposte espansive avanzate da partiti che non sono in grado di governare. 

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