La Federal Reserve, come da attese, ha alzato i tassi dello 0,75%. Il Presidente Jerome Powell, nel corso della conferenza stampa che ha seguito la riunione del Fomc di martedì e mercoledì, ha spiegato che il ritmo e l’entità dei prossimi rialzi saranno probabilmente inferiori al previsto.

«È stata quindi data un’indicazione prospettica sulle mosse della banca centrale americana – evidenzia Domenico Lombardieconomista ed ex consigliere del Fondo monetario internazionale -, ma meno precisa rispetto a quanto siamo stati abituati sinora. Avremo quindi una Fed leggermente meno prevedibile, anche se, comunque, ha reiterato la sostanza della sua guidance».



A cosa si deve questa minor “precisione” della banca centrale americana?

Essenzialmente a due fattori. Il primo è la difficoltà a prevedere l’evoluzione dell’inflazione, perché ancora, nonostante a giugno si sia arrivati al +9,1%, non si sa se sia stato raggiunto il picco. Con questa incertezza è quindi difficile fornire una guida precisa. Il secondo è che la forward guidance è più adatta quando vi sono bassi tassi di interesse e di inflazione. Oggi assistiamo a una crescente “normalizzazione” nel livello di entrambe le variabili. Inoltre, Powell è sempre più preoccupato per la ricaduta sulla crescita che la politica restrittiva della Fed sta avendo. Non a caso i mercati si aspettano una diminuzione dei tassi il prossimo anno a fronte di una recessione dell’economia americana.



I freschi dati sul Pil del secondo trimestre (-0,9%) non parlano in effetti di un’economia americana in buona salute.

È proprio così. L’economia americana si è contratta nuovamente nel secondo trimestre entrando, quindi, in una recessione tecnica. Si tratta, tuttavia, di una recessione anomala poiché il tasso di disoccupazione permane a livelli particolarmente bassi (3,6%), le imprese vorrebbero assumere più dei lavoratori che riescono a trovare e, dopo l’andamento sospinto nei consumi osservato lo scorso anno, è fisiologico un riassortimento delle scorte nei magazzini delle imprese. È cominciato, tuttavia, il blame game per cui la Casa Bianca cerca di deflettere qualsiasi responsabilità relativa a un’eventuale recessione e all’incontrollata dinamica inflazionistica che l’ha determinata. L’Amministrazione Biden è già in difficoltà e l’ultima cosa di cui ha bisogno è una recessione poco prima delle elezioni di midterm. Per questo continua a ribadire che la lotta all’inflazione è esclusivamente nelle mani della Fed. 



È realmente possibile che la Fed inverta la rotta sui tassi per andare in soccorso dell’economia?

Questo è un aspetto controverso, perché se la Fed cerca di combattere l’inflazione non può dare, allo stesso tempo, un segnale contrastante intervenendo a favore della crescita del Pil con un taglio dei tassi. La Riserva Federale è quindi in una condizione molto particolare, anche perché accusata di essere intervenuta in ritardo per dominare la fiammata inflazionistica e di non aver compreso sia il livello che il grado di persistenza di tale dinamica dei prezzi. È chiaro che Powell aspettava la riconferma del mandato a novembre e questo ha giocato un ruolo molto importante nella posizione attendista che la Fed ha avuto fino a quel mese fa.

In effetti la svolta anti-inflazionistica si è avuta subito dopo la riconferma del mandato di Powel. E forse anche perché la persistenza dell’inflazione è un problema politico importante negli Usa.

Sì, perché l’inflazione negli Stati Uniti non è spiegabile solo ricorrendo a fattori esogeni. In realtà, l’Amministrazione Biden, con il suo pacchetto di aiuti da 2 trilioni di dollari, ha avuto un ruolo determinante nel generare e ulteriormente alimentare la fiammata inflazionistica. A maggior ragione c’è quindi un interesse della Casa Bianca a deflettere la responsabilità sulle implicazioni di questo pacchetto, che è stato varato nella primavera dell’anno scorso, quando c’erano già i primi segnali. Non bisogna, tra l’altro, dimenticare che gli economisti dell’Amministrazione avevano ammonito il Presidente sulle implicazioni inflazionistiche che quel pacchetto avrebbe avuto.

Le dichiarazioni di Powell sulla guidance relativa alle prossime mosse della Fed potranno influenzare le scelte della Bce?

La Bce ha cominciato la normalizzazione molto recentemente – ha portato i tassi fuori dal territorio negativo appena la scorsa settimana – e proseguirà in questo percorso. Futuri aumenti dei tassi della Fed legittimeranno e daranno man forte a quanti nel Consiglio direttivo dell’Eurotower proporranno un’ulteriore stretta, ma è sempre importante essere consapevoli delle differenze strutturali che sottostanno ai problemi dell’Eurozona rispetto a quelli dell’economia americana.

Quanto può far la differenza il fatto che nell’Eurozona, per via della crisi energetica, la recessione sembra solo questione di tempo?

L’aggiornamento al World Economic Outolook del Fmi diffuso in settimana non fa che confermare la traiettoria discendente della crescita mondiale. L’economia dell’Eurozona resta connotata da una fragilità significativa per la vicinanza e per l’immediatezza di cui risente delle conseguenze della guerra in Ucraina. A mio avviso dovrebbe, quindi, esservi prudenza da parte della Bce, soprattutto perché la prospettiva di un razionamento del gas, con conseguenze recessive, sembra essere sempre più vicina e concreta. Su questo fronte sappiamo bene che la situazione italiana è tra le più critiche nell’Eurozona.

La Bce quindi rivedrà o ricalibrerà la sua postura?

Ritengo che la Bce nei mesi prossimi continuerà a rialzare i tassi. Sicuramente lo farà in misura minore rispetto alla Fed perché l’economia dell’Eurozona è meno dinamica e strutturalmente più fragile di quella americana. Sarebbe, tuttavia, importante cercare di non affidare solo alla politica monetaria la lotta all’inflazione, perché altrimenti rischiamo di sovraccaricare la politica monetaria e, quindi, di avere maggiori rialzi nei tassi di interesse, cosa che non ci possiamo permettere nell’Eurozona, specialmente in Italia, data la fragilità della nostra economia.

Cosa si potrebbe fare allora in Europa per combattere l’inflazione?

La dinamica inflazionistica che osserviamo ha fattori strutturali destinati a permanere per un tempo non breve. Sappiamo bene, infatti, che il problema dell’approvvigionamento e del mix energetico non sparirà tra pochi mesi. Occorre, pertanto, puntare su riforme strutturali e investimenti per espandere l’offerta aggregata, così da mitigare nel medio periodo la dinamica inflazionistica. 

Gli investimenti andrebbero effettuati in uno specifico settore?

Vanno portati a termine quelli previsti nel Pnrr e, poi, occorre investire maggiormente nel settore energetico. Vanno rivisti, tuttavia, i target sulla decarbonizzazione che sono stati stabiliti anche di recente, ma in un contesto che era completamente diverso da quello attuale. Un altro intervento da considerare riguarda le corporation energetiche: non è possibile, infatti, che traggano profitto dalla situazione attuale che vede altre imprese messe, invece, ai margini del mercato per gli alti costi dell’energia che devono sostenere. Questi sono solo degli esempi di una politica che tenda con riforme appropriate a mitigare i costi dell’inflazione per le nostre economie, in particolare per quella italiana, evitando di sovraccaricare la politica monetaria.

Perché il rischio alla fine è quello di far scendere l’inflazione sacrificando il Pil.

È la ricetta più semplice, la soluzione più facile da attuare, ma anche quella che alla fine farebbe più danno all’economia, comprimendo la capacità di investimento e l’occupazione. Uscendo da anni di crisi, di crescita molto debole, da una pandemia che ha colpito in modo particolare il nostro Paese, non possiamo permetterci l’ulteriore shock rappresentato da una lotta all’inflazione condotta solo attraverso la politica monetaria.

Di fatto si avrebbe lo stesso effetto delle politiche di austerità.

Proprio così, si tratterebbe di una politica di austerità che si sposta dal lato fiscale a quello monetario. È vero che il contrasto all’inflazione è perfettamente in linea con il suo mandato, ma dopo aver già sovraccaricato la Bce – intervenuta negli ultimi dieci anni per salvare l’euro e salvaguardare i Paesi più fragili dagli attacchi speculativi – se la lotta all’inflazione venisse perseguita tramite maggiori investimenti e l’espansione della capacità produttiva, si avrebbe un duplice risultato positivo.

Quale?

Una maggiore legittimazione delle istituzioni europee e l’utilizzo di un mezzo per contrastare l’inflazione diverso dall’accetta della politica monetaria che naturalmente, poi, va a colpire imprese e lavoratori, con ovvie conseguenze negative per la nostra capacità produttiva nel medio termine.

(Lorenzo Torrisi)

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