Il Governo continua a lavorare al decreto per mettere sul piatto 3,6 miliardi utili a contrastare gli effetti negativi sull’economia del coronavirus. Il ministro dello Sviluppo economico, Stefano Patuanelli, in un’intervista al Sole 24 Ore, ha elencato una serie di bonus e incentivi che potrebbero essere messi in campo, mentre la sua collega di partito e viceministro dell’Economia, Laura Castelli, al Fatto Quotidiano ha parlato di norme per snellire le procedure e velocizzare i tempi per l’apertura di cantieri. Del resto secondo l’Ocse l’Italia rischia di finire l’anno con una crescita zero, ma l’allarme più preoccupante, come ci conferma il vicepresidente della Fondazione Edison Marco Fortis, arriva da Cerved Rating Agency: “Un’azienda su dieci fallita nel caso in cui l’emergenza coronavirus non si arrestasse entro l’anno e con misure che di fatto fermano l’economia delle aree più produttive del Paese”.
Professore, cosa pensa della previsione dell’Ocse sul Pil italiano?
Trovo che quelle dell’Ocse siano previsioni da prendere con le molle perché non tengono conto della possibile durata ulteriore del fenomeno e della sua espansione in Paesi che non sono stati ancora colpiti. Si potrebbe parlare di crescita zero per l’Italia se nel giro di un paio di settimane le città tornasse a essere frequentate da turisti e le imprese ricominciassero a lavorare, ammesso e non concesso che tutti i flussi delle merci, delle materie prime, dei semilavorati, dei componenti, si ripristinassero rapidamente. Abbiamo però previsioni di Prometeia che per il primo semestre sono piuttosto pessimistiche e dati sul turismo che sono drammatici. Difficile quindi sperare in una crescita zero. L’aspetto più preoccupante mi sembra però quello denunciato da Cerved.
Rischiamo davvero che un’impresa su dieci fallisca?
Il vero rischio, al di là del rallentamento dell’attività produttiva che ci può benissimo stare, è che se le imprese cominciano a non relazionarsi più tra loro, clienti e fornitori, se i pagamenti si fermano, può esplodere un’enorme crisi di liquidità. È questo che minaccia i bilanci delle imprese, soprattutto quello meno robuste che rischiano di concludere l’anno in condizioni fallimentari.
Un film già visto dopo il 2011…
Sì, il vero problema è che dopo che le banche sono uscite faticosamente da una crisi appesantita dai crediti deteriorati, il Paese rischia di entrare in una nuova situazione di difficoltà. E una rete di pmi, che si era in qualche modo anche risanata superando una doppia recessione, rischia ora di vedere compromessi tutti gli sforzi fatti. L’effetto sarebbe uguale, ma rispetto al passato ora è bloccato il meccanismo di trasmissione economica dalla fabbrica al consumatore, non è quest’ultimo che ha difficoltà e non domanda: ci sono difficoltà produttive dovute al blocco della logistica e delle catene di fornitura a livello globale. Dovrebbero quindi essere studiate delle formule che garantiscano il più possibile l’accesso al credito alle pmi per evitare fenomeni di distruzione del tessuto produttivo.
Il Governo ha già promesso lo stanziamento di 3,6 miliardi di euro. Al di là della cifra è importante anche capire come usare queste risorse. Il Presidente di Confindustria chiede di attivare una domanda pubblica sulle infrastrutture. Cosa ne pensa?
La domanda pubblica sul fronte delle infrastrutture andrebbe attivata quanto prima, perché abbiamo già visto anche in ripetute analisi degli scorsi mesi che, dopo la chiusura di un ciclo dei consumi e di un ciclo degli investimenti privati, oggi l’unica vera arma rimasta nella nostra fondina nel breve medio termine è far partire gli investimenti pubblici.
L’Europa non avrebbe niente da ridire?
Dato che in questo momento c’è una certa attenzione da parte della Commissione europea a non strangolare l’economia dei Paesi membri in un frangente in cui la società è particolarmente colpita dal fenomeno del coronavirus, sbloccare il maggior numero possibile di cantieri sarebbe fondamentale, perché servirebbe che nel 2020 partissero 20 miliardi di cantieri. Credo che se il deficit dovesse aumentare l’Ue chiuderebbe un occhio, trattandosi in particolare di investimenti infrastrutturali e non di spesa corrente.
Perché sarebbe fondamentale partissero cantieri per 20 miliardi?
Perché in questo modo almeno sul lato del Pil, quindi sul fronte macroeconomico, andremmo a bilanciare un possibile calo importante delle attività più colpite. Nel 2018 alberghi, bar e ristoranti hanno contribuito al valore aggiunto per circa 62 miliardi. Se questo settore perdesse un 10%, avremmo 6,2 miliardi in meno di Pil a fine anno. Dai trasporti e immagazzinaggio, con un calo del 4%, rischiamo un ammanco di 3,5 miliardi. La manifattura può perdere il 2%, equivalente a 8 miliardi. Aggiungendo un miliardo per un calo del 5% di attività culturali, d’intrattenimento e sportive, arriviamo quasi a 18 miliardi. Attivando a tambur battente, senza perdere altro tempo, 20 miliardi di investimenti pubblici, si può controbilanciare un possibile calo traumatico dell’attività dei settori più sensibili a questa crisi da coronavirus, avvicinandoci a una previsione di crescita zero come quella ipotizzata dall’Ocse. Se non lo facciamo, sicuramente il Pil sarà negativo. È importante tamponare l’effetto sul Pil anche per un fatto contabile.
Per non far peggiorare il rapporto debito/Pil?
Esatto, il Pil va difeso anche come valore contabile, perché è il modo per non avere problemi con questo stupido rapporto debito/Pil. Sappiamo benissimo che questo Paese è più solido di quel che dice questo parametro, ma siccome è quello cui guardano tutti, l’Europa e i mercati, dobbiamo adoperarci per tenerlo in equilibrio. L’intervento più importante è comunque quello per evitare il collasso della liquidità. Altrimenti macroeconomicamente potremmo anche controbilanciare il calo del Pil, ma microeconomicamente usciremmo dal 2020 con un esercito di pmi falcidiato dalle difficoltà economiche. Questo sarebbe il disastro forse peggiore.
Su questo fronte quale dovrebbe essere l’intervento del Governo?
Secondo me esecutivo e banche dovrebbero sedersi intorno a un tavolo e ragionare in maniera estremamente pragmatica sulle soluzioni per evitare un circolo vizioso che finirebbe per colpire le banche stesse. Occorre che i soggetti si prendano la loro parte di responsabilità e capiscano che c’è un interesse comune che è la salvaguardia del tessuto produttivo del Paese, che non può però passare da un “liberi tutti” sull’attenzione sanitaria. Non bisogna correre rischi sulla salute pubblica, perché ne risente poi anche l’economia. D’altro canto ci vuole però molto equilibro nei provvedimenti per evitare anche la situazione opposta, in cui il sistema economico rischia la paralisi. Bisogna tutelare sia la salute pubblica che l’economia.
A questo proposito è stata criticata la gestione dell’emergenza da parte dell’esecutivo e c’è chi auspica una discontinuità. Lei cosa ne pensa?
Siamo il Paese degli eterni dibattiti: si vuole discontinuità in certi momenti, mentre in altri si preferisce preservare lo status quo. Nel 2016 l’Italia ha avuto l’opportunità di riportare in capo allo Stato una serie di materie, rimediando ai danni della riforma del Titolo V della Costituzione, ma gli italiani si sono espressi contro la riforma. Oggi pretendere che ci siano cabine di regia sempre efficaci quando c’è frammentazione di poteri è praticamente impossibile. Trovo però che un fenomeno abbastanza complesso e imprevisto in queste proporzioni sia stato gestito in modo tutto sommato accettabile dalle istituzioni. Sono stati però compiuti degli errori di comunicazione che non hanno fatto bene all’immagine dell’Italia. Siamo il secondo Paese europeo per pernottamenti di turisti stranieri, ma non so come finirà l’anno da questo punto di vista: un assaggio lo avremo probabilmente a Pasqua.
(Lorenzo Torrisi)