Ieri si è tenuto, nel nostro Paese, uno sciopero “atipico” in cui i sindacati hanno chiesto, nell’interesse dei lavoratori, di chiudere le imprese non strategiche (quali?) e necessarie per vincere la guerra contro il coronavirus. Una vicenda, tuttavia, che ci ricorda come dopo il virus polmonare ci saranno da combattere le, probabilmente, drammatiche conseguenze della “peste” economica che si abbatterà sul nostro già provato tessuto produttivo.



In questa prospettiva il Governo ha già messo in campo un primo decreto, il “cura Italia”, che cerca con una serie articolata di misure di proteggere imprese e lavoratori colpite, inevitabilmente, dal Covid-19. Tra gli interventi, oltre a quelli più “consolidati”, specialmente dopo la crisi del 2008, quali la cassa integrazione in deroga (che amplia un sistema di tutele “in costanza di rapporto di lavoro” anche a realtà piccole e piccolissime) si affacciano anche, probabilmente insufficienti e timidi, strumenti di tutela, per molti aspetti innovativi almeno, o non solo, nel nostro Paese, per i liberi professionisti e per il “popolo delle partite Iva”. Scelte che non sembrano, ampliando la prospettiva fuori dai confini nostra povera patria, essere sempre al centro degli interventi dei governi di molti altri Paesi.



Non si è, probabilmente, insomma, discusso abbastanza a livello globale (questa è almeno la sensazione dei ricercatori dell’Ilo), perché è probabilmente quello il livello a cui la discussione dovrebbe stare, di ciò che, ad esempio, accadrà di quei lavoratori che non sono licenziati, ma i cui contratti in scadenza non sono rinnovati o di quelli a cui le cui ore di lavoro sono state, bruscamente, ridotte a zero. Non è, fortunatamente, il caso dei dipendenti italiani, ma in molti Paesi, i lavoratori potrebbero non essere coperti da un’adeguata assicurazione contro la disoccupazione o da altre protezioni come il congedo per malattia retribuito o la cassa integrazione a regime e, tantomeno, in deroga.



In molti Paesi, inoltre, si stabiliscono soglie di ingresso, spesso barriere, per l’accesso a misure di sicurezza e protezione sociale che, nei fatti, fanno sì che molti lavoratori rimangano, in un momento critico come il presente, senza adeguate reti di tutela. La crisi legata al Covid-19 potrebbe essere, quindi, in questo quadro, un buon momento per ristrutturare e ricostruire i sistemi di protezione sociale (evidentemente prevalentemente passivi) che i vari paesi attualmente possiedono.

Le istituzioni internazionali auspicano, insomma, che si operi, anche sulla base dei limiti emersi in questa crisi, per la costruzione di nuovi modelli di welfare nei quali tutti i lavoratori, indipendentemente dalle modalità di assunzione, possano poter accedere all’assistenza sanitaria, rimanere a casa quando non si sentono bene e beneficiare del sostegno al reddito in caso di una riduzione del reddito legata a quella dell’orario di lavoro o della perdita dell’occupazione.

Sebbene, infatti, in questo mondo sempre più globale, abbiamo bisogno di modi flessibili di lavorare, questa flessibilità non dovrebbe andare, secondo l’Ilo ma non solo, a scapito delle necessarie protezioni per i lavoratori. L’auspicio è che il coronavirus immetta nei nostri welfare state il germe dell’innovazione.

L’Italia, in questo quadro globale, pur con tutti i limiti, potrebbe essere un modello a cui guardare. Quest’attenzione, anzi, dovrebbe portare il Governo e le parti sociali a immaginare nuove forme di tutela anche per i molti lavoratori, quali gli autonomi, ancora esclusi da molte di queste misure.

Riprendendo, insomma, un vecchio progetto del professor Biagi, si potrebbe, finalmente, pensare a uno “Statuto dei Lavori”, e non più dei lavoratori, che potrebbe diventare una buona prassi da copiare per gli altri.

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