Le tensioni nella maggioranza di governo sono all’ordine del giorno. Al momento, i principali temi oggetto del contendere sono essenzialmente due: da una parte abbiamo la preoccupazione sul come gestire al meglio le prossime settimane in ambito di blocco totale in capo alle regioni, mentre di tutt’altra natura sono invece i tumulti che caratterizzano i continui contrasti tra il Premier Conte e il parlamentare Renzi. Concentrandoci unicamente su questi ultimi, lo spettro di un’imminente crisi non deve preoccupare. Che si possa concretizzare è un fatto che tutti ben conoscono e in gran parte potrebbero condividere, ma, dal punto di vista pratico, il continuare a governare non è messo in discussione. Non conviene a nessuno, anzi, è bene che l’attuale stato di immobilismo possa perdurare per parecchio tempo e, proprio per questo motivo, è opportuno rifarsi al più classico e sovente gattopardismo: «Se vogliamo che tutto rimanga come è, bisogna che tutto cambi».
Di fatto, il volere di Renzi, potrebbe non destare scalpore: sul piatto c’è la gestione dell’irrinunciabile dote del Recovery Plan italiano ovvero una cifra storica che non può essere sottorubricata a semplice tesoretto, ma bensì a ricchezza di inestimabile valore (e potere) politico. L’obiezione del “già Premier” Renzi verte principalmente sulla contrarietà nell’avere una cabina di regia esterna al Parlamento che, in quanto tale, possa prevaricare sull’azione decisionale dell’esecutivo.
Si tratta di un lecito timore, ma l’analisi renziana potrebbe non limitarsi solo a questo: vedersi gestire un patrimonio da terzi (per lo più esterni e magari cosiddetti “tecnici”) imporrebbe una severa fotografia sull’incapacità dell’attuale classe politica che, messa in ombra dall’azione ritenuta più incisiva dei temuti “commissari”, vedrebbe una débâcle ufficialmente certificata agli occhi di tutti. E proprio a questi “tutti”, gli sguardi più attenti e interessati riportano ai vertici europei. Il Recovery Plan fa seguito a quello che nel giugno scorso è stato prima suggerito, poi indicato, e definitivamente approvato in sede di Stati Generali dell’Economia.
Nella storica cornice di Villa Doria Pamphilj, in poco meno di una settimana, il presidente del Consiglio, Giuseppe Conte, assieme a rappresentanti delle Istituzioni e delle Parti sociali, mise in atto il “Piano di Rilancio dell’Italia”. A quei tavoli, tra le persone in presenza e coloro “a distanza”, hanno partecipato Kristalina Georgieva (direttrice del Fmi), Ursula von der Leyen (presidente della Commissione Ue), David Sassoli (presidente del Parlamento europeo), Paolo Gentiloni (Commissario europeo all’Economia), Christine Lagarde (presidente della Bce), Charles Michel (presidente del Consiglio europeo). Una presenza quanto più illustre quanto più ingombrante e temuta poiché, grazie al loro esserci, si è dato il via a un nuovo inizio, al cosiddetto “Progettiamo il Rilancio”.
È opportuno ricordare come gli stessi Stati generali abbiano fatto seguito al passaggio di consegne da parte di Vittorio Colao: il manager, a capo della sua task force, ha lasciato nella mani del Premier Conte l’operato svolto nell’arco dei mesi precedenti e non è un caso come gran parte dell’intero dossier elaborato sia poi stato richiamato nel definitivo “Piano di Rilancio dell’Italia”. Una road map trasparente, dettagliata, e priva di fraintendimenti.
Di sicuro, l’illustre presenza dei sopracitati interlocutori non sarà stata solamente formale, ma è plausibile ipotizzare si sia trattata di una sorta di vigilanza preventiva sulla to do list in capo al Governo italiano in funzione dei successivi mesi a venire. Oggi, infatti, con il senno di poi, troviamo l’Italia in veste di principale beneficiario dei fondi europei e non può essere escluso come l’esser giunti a questo ambito epilogo sia il frutto di un giusto do ut des tra l’Europa e lo stesso Governo italiano. Ed ecco spuntare la conditio sine qua non dell’affare tra le parti: la gestione della liquidità in arrivo, o meglio l’individuazione dei soggetti che la dovranno gestire ossia persone esterne all’attuale compagine di governo.
Finora, quello da noi ipotizzato, trova puntuale riscontro nel tragitto iniziato a Villa Doria Pamphilj. L’interferenza renziana potrà minarne la destinazione? Difficile crederlo, anzi possiamo fin da subito escluderlo. Gli scenari sono molto chiari in caso di mancato accordo tra Renzi e il Premier Conte qualora ci fosse una crisi di Governo: opzione uno, la legislatura continuerebbe ma con diversa compagine politica attingendo tra le forze attualmente in campo; opzione due, l’esecutivo in essere viene messo da parte e sostituito da una nuova squadra indotta dall’esterno. In entrambe le ipotesi il “comitato esterno” preposto alla gestione del Recovery Plan rimarrebbe al suo posto e – di fatto – continuerebbe la strada delineata in quel dì degli Stati generali.
Un eventuale ricorso alle urne? Renzi e il suo partito difficilmente conseguirebbero un risultato soddisfacente. Alcuni potrebbero considerare questo scenario come una sorta di commissariamento dell’Italia e ne siamo consapevoli, ma a tutti coloro che si sentono profondamente “anti-Europa” rivolgiamo un quesito: se non ci fosse stata questa Europa, la nostra Italia, ce l’avrebbe fatta con le proprie gambe? I viaggi molto lunghi sono ancor più piacevoli se in buona compagnia.