C’è un sito, covidvisualizer.com, dove un mappamondo virtuale gira in continuazione: basta cliccare su un Paese e salta fuori un tragico contatore che fornisce, in tempo reale, il numero di casi positivi al coronavirus, quello dei decessi e quello dei ricoverati. È una contabilità terrificante (si salva, per ora, solo l’Antartide) che rende evidente l’estensione della pandemia e che certifica l’assenza di immunità geografiche.



Un giorno – per dirla alla Robert Duvall di Apocalypse Now – questa guerra finirà: ci adatteremo noi, popoli finalmente vaccinati degli anni Venti a venire, o andrà in quiescenza il virus, che comunque potrebbe restare indefinitamente in stand-by. Ma quando rimetteremo prudentemente il naso fuori dalla porta, magari coperto da una mascherina, ci ritroveremo a vagare inutilmente tra macerie post belliche o sapremo rilanciare lo spirito d’impresa che già salvò buona parte del Paese in altre occasioni?



Per l’industria del turismo questo 2020 è un anno di fine e di inizio (ultime previsioni da Confturismo: un milione di posti di lavoro a rischio, perso almeno il 60% dei 200 miliardi di volume d’affari complessivo generato dal turismo, direttamente e tramite gli effetti su altri settori), ed è chiaro che se questo comparto non riuscirà a ripartire sarà l’Italia intera che non ripartirà. Ma anche vedendo il mondo contagiato su quel sito web, è chiaro che viaggi e turismo leisure dovranno rimodellarsi su canoni ben diversi da quelli conosciuti finora.

La prevedibile incertezza che si avrà a ogni sorta di spostamento, la paura, spingeranno i flussi – quali saranno – verso destinazioni a breve, brevissimo raggio, anche perché l’Italia, essendo stata tra i primissimi Paesi vittime del contagio, sarà probabilmente preferibile in quanto uno dei primi a venirne fuori. Sarà quindi l’epoca dei mari e monti di casa, meglio se a chilometro quasi zero, degli aerei mezzi vuoti (molte le compagnie che hanno già stoppato i nuovi ordini dei giganteschi Airbus A380), della rivalutazione dei patrimoni domestici (e qui almeno siamo fortunati, visto che proprio l’Italia detiene il primato delle bellezze mondiali).



Le grandi incognite sono due: quanti saranno gli operatori del turismo ancora in pista domani, e quando sarà questo domani, quando sparerà la pistola del restart? Entrambe le risposte sono attese dalla politica, che in queste settimane sta navigando a vista, su una rotta tracciata per lo più da consulenti scientifici. Ma nell’iter dei processi decisionali di un governo, di qualsiasi governo, devono incidere sicuramente i dati e le competenze scientifiche, ma anche i dati, le previsioni e le competenze economiche e sociali. Perché se da un punto di vista medico almeno un traguardo è comunque ipotizzabile (la disponibilità di un vaccino efficace), dall’altro è buio fitto: la crisi che si è innescata ha contorni talmente vasti e incerti da non consentire nessuna previsione, né a medio né tantomeno a lungo termine. Se prima o dopo non si morirà più di Covid-19, si potrebbe continuare a morire di bancarotta, di fallimenti, di disoccupazione, di fame.

Alberghi sfiniti nell’accogliere solo la metà degli ospiti possibili, visto il necessario diradamento; compagnie aeree al collasso; spiagge con distanze triplicate tra gli ombrelloni e corsie di galleggianti ben separate in mare per consentire i bagni; ristoranti con tavoli sparpagliati e via dicendo: è questo lo scenario che si prospetta per la fantomatica “fase due”. Una fase che però potrebbe riservare una sensibile voglia di recupero, visto che – come rivela un recentissimo sondaggio compiuto da Swg – dopo il lockdown totale la gente non vede l’ora di poter fare nuovamente una vacanza “outdoor”, prevalentemente in Italia (83%), sempre che le finanze di casa lo consentano (il 16% pensa di no).

Il paradigma del turismo 2020, anno zero, si declinerà in stili inusuali a tempo indeterminato, inusuali perché nessuno degli adulti vacanzieri è “corona-nativo”: si dovranno insomma aggiornare scelte e abitudini, fino a quando tutti avranno imparato la lezione. Quale? Che la globalità è buona cosa e imprescindibile, ma va presa con le dovute cautele. Il turista pc (post covid) ne diventerà presto consapevole, adottando scelte responsabili, sostenibili e finalmente più coerenti. Perché oggi appare evidente che non si può sconsideratamente continuare nel bipolarismo un po’ provinciale del vanto delle bellezze di casa nostra e della settimana prenotata alle Maldive.

Al turismo pc serve comunque un piano industriale vero, un’urgente roadmap finanziaria che accompagni la transizione e il nuovo dimensionamento che sarà imposto dalle regole igienico-sanitarie. Ma di tutto questo non si sta ancora parlando, nessun progetto all’orizzonte, nonostante l’inedito manifesto che ha radunato insieme tutte le componenti del settore, un vero grido di dolore e d’allarme, al quale per ora si propongono solo nuove forme di indebitamento e poco altro. È chiaro che non si sta facendo abbastanza, e che a palazzo manca forse la percezione dell’asfissia che sta uccidendo così tante imprese, così tante persone. Il mantra però resta il medesimo: se non ripartirà il turismo, sarà l’Italia intera a non sapere più ripartire.

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