Mentre si discute se il ritiro russo sia reale o apparente, stanno avvenendo fatti preoccupanti. La Duma, la camera bassa del parlamento russo, approva una risoluzione non vincolante che chiede il riconoscimento delle autoproclamate repubbliche separatiste di Lungansk e Donetsk. Mosca denuncia il “genocidio” in Donbass ai danni della popolazione russa. E infine gli scontri di artiglieria in Donbass.
Ancora una volta quindi la strategia adottata da Mosca risulta un misto di iperboli e di mosse ambigue destinate a nascondere dietro una cortina fumogena le vere intenzioni russe con lo scopo di gettare in confusione l’avversario, Biden e la Nato. “Noi non sappiamo che cosa avverrà in Ucraina”, ha dichiarato il segretario dell’Alleanza Jens Stoltenberg. È una strategia efficace che permette a Putin di uscire sempre dall’angolo negando qualsiasi accusa e di apparire sempre vincente perché mai sono dichiarati i veri obiettivi.
Gli obiettivi immediati dell’operazione in corso sono infatti incerti nonostante i documenti scritti. Putin vuole invadere l’Ucraina? Oppure separare il Donbass? E vuole agire con truppe russe o per procura? Oppure vuole solo far paura all’Ucraina, alla Nato, a Biden? E sta ritirando davvero le truppe o siamo davanti ad una mossa diversiva? Perché la strategia dell’ambiguità ha come fine il prendere tempo, mandando a vuoto le risposte del nemico con il risultato di screditare la sua reputazione.
Ma non dobbiamo lasciarci fuorviare, perché chiari invece sono gli obiettivi politici generali di tutta l’operazione. Putin vuole rinegoziare l’assetto complessivo della sicurezza in Europa e non essere un soggetto passivo di scelte altrui. Perché vede l’assetto attuale come una riedizione degli accordi di pace di Versailles del 1919 quando le potenze vincitrici decisero il destino del mondo e dell’Europa in assenza della Germania e Vienna. Vuole un’altra Yalta, vuole incontrare Biden e trattare da pari.
Vuole di nuovo una riedizione delle sfere di influenza, anche se sa benissimo che la Russia di adesso non è l’Unione Sovietica di una volta. Vuole infatti una fascia di sicurezza a Ovest, chiede che l’“estero vicino”, come lo chiamano a Mosca, in primis Ucraina e Bielorussia, siano per lo meno neutrali se non amiche. D’altronde Mosca l’ha dichiarato in modo esplicito il fine ultimo. “La Russia continua a favorire un approccio integrato ai problemi strategici. Proponiamo di iniziare a sviluppare insieme una nuova equazione di sicurezza”.
L’obiettivo geostrategico della zone cuscinetto si articola a seguire in punti diversi. Ecco la richiesta netta di blocco dell’allargamento della Nato all’Ucraina, la ricerca dell’autonomia del Donbass, il riconoscimento dell’indipendenza della Crimea, la revisione degli accordi sui missili balistici a medio raggio, la proibizione delle manovre Nato alle porte di casa, il diritto a stringere accordi economici – vedi Nord Stream 2 – senza chiedere il permesso a Washington.
Mosca non ha la forza di cambiare l’ordine del mondo, sa che il divario tecnologico, economico, militare e di forza attrattiva rispetto agli Stati Uniti è incomparabile. Non vuole costruire un assetto alternativo, non è più l’Unione Sovietica, avanguardia del proletariato mondiale; non propone come una volta né modelli economici, né di vita, né ideologie diametralmente opposte al capitalismo. La Russia è una potenza revisionista che non accetta questo ordine attuale, ma allo stesso tempo ne fa parte perché vive nello stesso spazio economico, commerciale, finanziario ed anche tecnologico. Mosca nuota nell’oceano unificato della globalizzazione. Vuole più potere, non aspira ad abbattere l’ordine internazionale, vuole rimodellare le regole del sistema ma non cambiare tutte le regole del gioco.
Le mosse di Putin allora a livello internazionale hanno un ulteriore duplice scopo, dividere il fronte avversario e cercare alleati.
Il primo obiettivo è sotto gli occhi di tutti. La Nato è composta per lo meno da tre blocchi. In testa vi sono gli Stati Uniti, il locomotore dell’Alleanza, supportato dalla Gran Bretagna; poi segue il gruppo formato dai paesi ex sovietici e da quelli una volta appartenenti al Patto di Varsavia fortemente antirussi. Poi viene il gruppo capeggiato dalla Germania, Italia e Francia. I tre sottoinsiemi nutrono verso la Russia interessi strategici, sentimenti, memoria storica e valori diversi che qui sarebbe lungo analizzare. Gruppi che comunque non hanno trovato una sintesi politica realistica e condivisa tra loro, anzi sono finiti a disegnare un diagramma di forze instabile.
Gli obiettivi dei diversi partner dell’Alleanza atlantica quindi non coincidono, o meglio coincidono per costrizione interna ed esterna; in questa contraddizione si inserisce l’azione di Putin, tutta tesa a far esplodere le divergenze.
Le azioni di Mosca d’altronde, ecco il secondo obiettivo, sono piene di significato e sembrano dire al resto del mondo: perché Washington può bombardare la Serbia, fare la guerra per il Kosovo, mentre la Crimea ed il Donbass non possono essere indipendenti? Perché la Nato è alle porte della Russia e noi non possiamo fare le manovre militari con i nostri alleati bielorussi?
Non stupisce quindi che la strategia di Biden della “deterrenza attraverso la trasparenza” sia opposta. Con la drammatizzazione continua degli eventi Washington cerca di compattare il fronte degli alleati, restringendo il loro campo di manovra, togliendo lo spazio ad ogni ambiguità e doppiezza e allo stesso tempo spinge Putin ad una mossa chiara che lo inchiodi. O guerra o ritiro. Entrambe le scelte ben accette da Biden. Il ritiro perché suonerebbe come una vittoria, anche se Putin certo negherebbe, in quanto potrebbe dire che l’invasione non era nei suoi piani. Anche l’attacco manifesto all’Ucraina farebbe però il gioco americano, perché svelerebbe al mondo la vera natura del capo del Cremlino, permettendo allo stesso tempo alla Nato di serrare i ranghi, e addirittura spingendo altri paesi adesso neutrali nelle braccia dell’Alleanza atlantica.
Se la posta in gioco è questa e la strategia così complessa, Mosca non ha bisogno che i suoi carri armati attraversino il confine ucraino. Al suo arco dispone di altre frecce: guerre per procura attraverso le milizie in Donbass, attacchi informatici, minacce tramite la Bielorussia. Il suo gioco necessita solo dell’esercizio di una pressione costante sull’avversario su diversi fronti, siano una volta le esercitazioni militari al confine ucraino, un’altra volta la questione del Donbass, i missili in Bielorussia, le forniture di gas all’Europa e così via. Sempre muovendosi però sotto il radar del diritto internazionale. Ne è un esempio il capolavoro degli accordi di Minsk dove la Russia è coinvolta, a differenza dell’Ucraina, non come parte in causa, ma come garante alla pari dell’Ocse e della Germania. Russia che quindi si muove in modo esperto in quella zona grigia tra guerra e pace che sembra contraddistinguere i nuovi conflitti.
Ma la partita Russia-Nato sullo scacchiere ucraino, a differenza degli scacchi, non è un gioco tra due attori razionali in campo neutro. Russi, ucraini, bielorussi, truppe Nato, cancellerie, eserciti, milizie, mercenari, agenti provocatori, opinioni pubbliche, manifestanti, estremisti nazionalisti di tutti i tipi, gruppi di potere diversi all’interno della propria squadra, affollano il panorama. Molteplici le dinamiche, le variabili, le casualità e quindi le possibilità di errore.
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