Vladimir Putin visita Stalingrado ottant’anni dopo la vittoria dell’Armata Rossa sui panzer di Hitler. Gli Usa non spengono la voce che la Cia avrebbe messo sul tavolo del Cremlino – come ipotesi-compromesso per il cessate il fuoco – il 20% del territorio ucraino sotto occupazione russa. L’Ucraina, intanto, chiede con piglio-Zelensky al Fondo monetario internazionale una quindicina di miliardi di dollari di prestiti pronta cassa Sono tre spunti di cronaca – fra molti – che bucano le narrazioni mediatiche egemoni sulla “guerra a oltranza” attorno a Kiev.  E sembrano introdurre – pur con tutte le loro drammatiche ambiguità – scenari di “fine guerra”: in parte in filigrana su quanto avvenne nell’ultimo conflitto mondiale finora combattuto.



La battaglia di Stalingrado – dal luglio 1942 al 2 febbraio 1943 – fu il più importante scontro militare della Seconda guerra mondiale, segnandone la svolta. Fino ad allora le operazioni si erano risolte nella quasi ininterrotta affermazione e avanzata territoriale della forze dell’Asse. Dopo allora il conflitto seguì invece le rotte della continua controffensiva della nazioni alleate, culminata nella liberazione dell’Europa occidentale da parte angloamericana; nella conquista sovietica di Berlino e dell’Europa orientale e infine nella resa del Giappone agli Usa in Asia-Pacifico.



È comprensibile che l’odierno Presidente russo tenti di rivestire oggi con legittimità storica i panni di Stalin, il dittatore sovietico che vinse la “Grande Guerra Patriottica” a partire da Stalingrado. A differenza di Stalin, però, è stato Putin a partire all’attacco nel 2022 (come Hitler nell’Operazione Barbarossa del 1941). E nell’ultimo anno è stata l’Armata rossa a fallire la conquista di Kiev (come accadde alla Wehrmacht alle porte di Mosca, pur disponendo dei progenitori dei Leopard). È pur vero che – nella narrazione chiaramente manipolatoria del Cremlino – “l’operazione militare speciale” lanciata nel febbraio 2022 mirava a una “difesa attiva” di Donbass e Crimea: riaffermate come “terre russa” che sarebbe state illegittimamente racchiuse in uno “Stato nazista” (quello che sarebbe stato creato dopo il 2014 su spinta Usa e Nato). Un richiamo pochissimo accettabile sul piano storico recente, ma non privo di suggestione in un arco do tempo più lungo: soprattutto agli occhi dell’opinione pubblica russa e di osservatori non occidentali. Il lungo confronto fra Hitler e Stalin, prima e dopo Stalingrado – si svolse principalmente in Ucraina (a Kharkiv si combatterono quattro grandi battaglie). E fu l’Urss, dopo Stalingrado, a “liberare” l’Ucraina – facendovi anche cessare la Shoah – laddove una parte della popolazione ucraina solidarizzava con gli occupanti nazisti, decenni prima del Battaglione Azov.



È comprensibile anche l’approccio di “realpolitik” – benché mediatico –  della Cia come “braccio secolare” della Casa Bianca. Lo scenario di possibili concessioni territoriali alla Russia pur di bloccare l’escalation verso un conflitto globale (già probabilmente tale sul piano economico) sembra discendere anche dalla rilettura storica del “dopo Stalingrado”. Lo scenario 1943-45 – cioè  l’ipotetica avanzata dell’Ucraina formato Nato fino a Mosca con la caduta di “Adolf Putin” non appare praticabile  (il Pentagono è apertamente scettico anche sulla semplice riconquista della Crimea da parte di Kiev). Ed è uno scenario forse neppure auspicato dalla Casa Bianca: che teme rischi di vuoto di potere al Cremlino. Non da ultimo, il 2024 negli Usa sarà anno di presidenziali: e Joe Biden è ancora incerto perfino sulla ricandidatura, ben diversamente dal predecessore “dem” Franklin Delano Roosevelt che nel 1944 corse e vinse per la quarta volta consecutiva (mentre nel 1940 era stato confermato dopo una campagna non-interventista riguardo la “guerra europea” appena iniziata). Per FDR la guerra mondiale era stata d’altronde il volano finale del “New Deal” che aveva strappato gli Usa alla Grande Depressione. Biden e la Fed faticano invece oggi a controllare le ricadute negative interne di una guerra che pure è circoscritta all’Europa orientale. E nessun pallone-spia nazista sorvolò mai gli States: al massimo qualche u-boot riuscì ad avvicinarsi alle coste atlantiche del Nord America.

A Stalingrado è legato anche un richiamo storico apparentemente minore. Dopo la resa della Sesta Armata è storicamente accertato che emissari tedeschi e sovietici si incontrarono per sondare la possibilità di un armistizio sul fronte orientale (sulla falsariga di quello siglato nel marzo 1918, otto mesi prima della fine della Prima guerra mondiale, quando la rivoluzione leninista – agevolata dalla Germania – fece cessare la guerra). Venticinque anni dopo non se ne fece nulla per il fanatismo della dittatura nazista, oltreché per l’assoluta incuranza di quella staliniana per le perdite militari e le sofferenze civili. Fu però così che l’intera ‘Europa diventò nei due anni successivi terra bruciata: nella quale era alla fine tutt’altro che facile distinguere fra “vincitori” britannici o francesi e “vinti” tedeschi o italiani. Gli italiani –  nel dopoguerra medio-lungo –  ebbero ad esempio una sorte migliore dei “vincitori morali” polacchi: i quali, dopo essere stati invasi il primo giorno di guerra dalla Germania destinata alla sconfitta videro sei anni dopo il loro Paese sfigurato dagli accordi presi dai Tre Grandi “vincitori” a Yalta (nell’attuale Crimea contesa).

Il “Giorno della Vittoria in Europa” ebbe un’appendice di tre mesi per diventare “VJ-Day” nel Pacifico. Ma quella che è tuttora raccontata come coda di una guerra mondiale “calda” e “convenzionale” – con il doppio bombardamento atomico sul Giappone – scaraventò in effetti il mondo in avanti, verso una una nuova e inesplorata stagione bellica. Oggi definiremmo definiremmo a malapena “tattici” gli ordigni che distrussero Hiroshima e Nagasaki: le armi di cui Putin ha nuovamente evocato l’uso  a Stalingrado sono più potenti ed efficaci. Resta il fatto che centinaia di migliaia di giapponesi pagarono però con la vita  i “tempi supplementari” imposti dalla resistenza ultima delle oligarchie militari-industriali di Tokyo. Dal canto suo il Presidente americano Harry Truman – che comunicò a Stalin il possesso della nuova arma nucleare alla conferenza di pace di Potsdam pochi giorni prima del 6 agosto 1945 – non aveva solo l’obiettivo militare di troncare la guerra in Asia, ma anche quello geopolitico di preparare l’imminente “Guerra fredda”. Una lezione forte di quel lungo “fine guerra” è dunque che esso può rivelarsi la fase più difficile, pericolosa, tragica: certamente per i Paesi che sono “campo di battaglia” (di ogni genere). Non basta “vincere la guerra”: quando e come si pone fine alla guerra sono le premesse per “vincere la pace”, che non è affatto una conseguenza automatica di un’apparente affermazione militare.

Se è vero che la guerra tende a diventare “inesorabile/irrinunciabile” se si prolunga, difficilmente mancano pause utili per interromperla. E sono quasi sempre imposte da circostanze militari: la stagione invernale o anche solo l’esigenza di riorganizzare le truppe e rifornire gli arsenali. Nei primi mesi del 1940, il conflitto europeo (limitato fino ad allora all’Europa occidentale) entrò nella cosiddetta “drole de guerre”: le operazioni militari si fermarono dopo le prime aggressioni hitleriane. Si aprì una finestra che rimase però completamente inutilizzata. La Gran Bretagna, comprensibilmente, non era disposta a dare nuovo credito a Hitler, traditore dei patti di Monaco del 1938. Gli Stati Uniti – in pieno New Deal post-depressione – non volevano essere coinvolti in una nuova sanguinosa zuffa nel Vecchio continente. Il seguito è comunque noto:  nel giugno 1940 i carri armati tedeschi entrarono a Parigi e 330mila soldati britannici dovettero fuggire precipitosamente da Dunkerque. La Francia rimase occupata per quattro anni. Nel 1945 la Gran Bretagna si dichiarò “vincitrice” di un conflitto in cui si erano in realtà imposti i due nuovi giganti extraeuropei. Londra si ritrovò in ginocchio sul piano economico: privata, per sempre, dei suoi secolari “spazi vitali” imperiali. Non fu per caso che il “comandante in capo” Churchill fu (democraticamente) giubilato nel giro di poche settimane: la superpotenza del liberalcapitalismo globale si era risvegliata ridotta a Stato nazionale costretto a politiche economiche stataliste (e i massicci scioperi di questi giorni in Gran Bretagna sembrano muoversi sullo stesso canovaccio. mentre la stessa Brexit sembra già in seria discussione)

Già un anno prima che le armi tacessero su continenti e oceani (e sei mesi prima che i Grandi si spartissero il planisfero geopolitico)  44 Paesi alleati avevano disegnato il dopoguerra economico-finanziario. La conferenza di Bretton Woods si tenne nel luglio del 1944 e fu nei suoi accordi finali che fu partorito il Fondo monetario internazionale: negli intenti uno strumento di stabilizzazione monetaria-valutaria e di sostegno alle ricostruzioni post-belliche (attraverso la gemella Banca Mondiale). La seconda situazione pare oggi attagliarsi all’Ucraina, di cui è già stata delineata una fase ricostruttiva post-bellica ricalcata dal “Piano Marshall” americano in Europa occidentale. Nel frattempo, però, la guerra è ancora in corso: ed è per finanziare un Paese in guerra che funzionari ucraini incontreranno loro omologhi del Fmi a metà febbraio: a Varsavia (campo formalmente neutro fra Washington a Kiev, anche se vero comando avanzato Nato sul fronte ucraino).

Sul tavolo vi sarà – formalmente – la concessione di una maxi-linea di credito da 14-16 miliardi di dollari, utili a copre una parte importante dei 38 miliardi di dollari di “buco” finanziario che Kiev ha annunciato per il 2023. L’Ue ha già promesso un pacchetto di 18 miliardi di aiuti, ma sollecitando altre “donazioni”, anzitutto da Paesi del G7. Il contatto Ucraina-Fmi si annuncia in sé promettente, ma non sembra sfuggire a un gioco di specchi politico-mediatici ogni giorno più spregiudicato e insidioso. È solo di cinque giorni fa la spettacolare trasferta della Commissione Ue a Kiev, preceduta però da echi scettici sulle effettive prospettive di accoglimento dell’Ucraina nell’Unione in tempi brevi.

Del Fmi la Russia è uno dei membri principali con il 2,68% circa delle quote-voti. Il primo Paese-membro sono gli Usa, con il 16,5% e il diritto a indicare il Direttore generale: oggi Kristalina Georgieva, nata e cresciuta nella Bulgaria sovietica e rappresentante della World Bank in Russia in era putiniana. Mosca (allora capitale dell’Urss) non è stata fondatrice del Fondo, benché abbia firmato gli accordi di Bretton Woods. A rappresentare il Cremlino nell’executive board di Washington resta però un tecnocrate putiniano di alto profilo come Aleksei Mozhin: solo simbolicamente “sospeso” nel maggio scorso dal ruolo cerimoniale di decano dell’esecutivo, assegnato per anzianità acquisita.

Nel capitale e nel board del  Fondo non manca la Cina; in un terzo posto quasi appaiato al Giappone e davanti alla Germania. Pechino non è un membro-fondatore, ma ha preso il posto di Taiwan, la “Repubblica di Cina” anti-maoista che firmò Bretton Woods nel 1944. Per la Repubblica Popolare la “scalata” al Fondo è stata però importante al punto che – almeno prima della pandemia – erano iniziate le speculazioni sul possibile arrivo di un tecnocrate cinese alla direzione generale (tradizionalmente riservata all’esponente di un Paese Ue gradito agli Usa). Le prospettive di un “rimpasto geopolitico” al Fondo appaiono oggi molto ridimensionate, dopo tre anni di pandemia Cina-centrica, di guerra russa e di aggressività di Pechino verso Taiwan (e ora verso i cieli stessi delle Americhe). Tuttavia il mosaico delle quote e delle poltrone al Fondo resta caratterizzato dal progressivo “non allineamento” di Paesi non occidentali soggetti all’espansionismo cinese (in Africa, ma anche in America Latina). È la stessa tendenza osservata sulla crisi russo-ucraina: laddove – anzitutto all’Onu – lo schieramento occidentale pro-Ucraina è emerso quasi minoritario in termini di “teste-Paese” e di popolazione, anche se ancora largamente maggioritario sul piano economico-finanziario, tecnologico e militare.

Il Fmi finanzierà l’Ucraina in guerra  contro la Russia? Oppure il dossier è una semplice “arma di comunicazione di massa” da parte di Usa e Nato? Se l’esito sarà in qualche modo il primo, non sarà inverosimile assistere a sommovimenti strutturali nella più longeva istituzione dell’ordine mondiale seguito alla Seconda guerra mondiale. Il Fondo che aveva segnato il primo “fine guerra” un’ottantina di anni fa, si ritroverebbe a rovesciare la sua “mission”: a protrarre la guerra, a ricostruire prevedibilmente un “ordine economico-finanziario globale” ristretto all’Occidente e antagonista all’asse russo-cinese in gestazione. Se invece il Fondo si muoverà dopo un cessate il fuoco – per finanziare la “recovery” ucraina, ma forse anche quella di Crimea e Donbass – allora assisteremo prevedibilmente a un “fine guerra” diverso da quello del 1945. Senza “vincitori” e “vinti”, ma anche senza le distruzioni immense portate da quella che resta l’ultima guerra mondiale e che per quasi 80 anni il mondo è riuscito a lasciare tale.

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