Nel suo libro Il principio territoriale, Alberto Magnaghi, presidente della Società dei territorialisti, propone frontalmente il dualismo tra il principio funzionale ed il principio territoriale, dunque tra una visione del mondo che ignora storie, identità, legami, tradizioni e un’altra visione del mondo, quella che invece considera il futuro come sviluppo del passato e che tende alla valorizzazione del patrimonio locale.
Nel primo caso le merci, le persone e i capitali circolano “liberamente” e indifferentemente, senza nessuna relazione con le culture, i dialetti, le specificità locali, i sentimenti, le memorie, le appartenenze. Nella visione “territoriale”, al contrario, prevale la coscienza di luogo: gli elementi del passato si trasformano ma non si annullano, costituendo lo specifico patrimonio della comunità.
Quello fondato sul dualismo tra “territoriale” e “funzionale” è un metodo di analisi che consente di esaminare consapevolmente e criticamente molti processi in atto sia nel mondo che “sotto casa”. Un metodo di analisi che, nonostante la crescente complessità tecnica dei processi decisionali pubblici, consente di mantenere vivo un legame tra la democrazia e le politiche pubbliche, tra la consapevolezza dei semplici e gli orientamenti delle Organizzazioni.
Messa così, in generale, è facile prevedere che tutti, o quasi, sono pronti a dichiararsi decisamente favorevoli al principio territoriale e fortemente contrari al principio funzionale. Soltanto “pochissimi”, infatti, possono desiderare un mondo privo di identità, di storia, di cultura, di legami, entro il quale gli individui sono soltanto consumatori delle merci, e infine merci essi stessi.
Tuttavia: se questi “pochissimi” sono bene organizzati, allora essi si appropriano delle leve del potere (sottraendole al vaglio del demos) e si appropriano dei media, riuscendo a presentare come “preferibile”, o addirittura come indispensabile e unica, la loro prospettiva. Essi saranno ben attenti ad evitare di dichiarare apertamente i propri princìpi e i propri fini, ben sapendo che, se svelata, la loro opera risulterebbe ostile e terribile a molti, e con essa risulterebbero odiosi anche coloro che la propinano.
Il contributo che si prova a dare con questo scritto è quello di mostrare alcune delle situazioni principali in cui, in concreto, la partita (tra principio funzionale e principio territoriale) si gioca.
Atterrando nel concreto, i cori a sostegno del principio territoriale cominceranno di certo ad entrare in collisione con molte convinzioni abilmente alimentate dalla propaganda dei “funzionalisti”. Se qualche dubbio e qualche confusione discenderà da questa collisione allora questo scritto non sarà stato inutile.
Partiamo, dunque. Il territorio al centro, si è detto. Giacomo Becattini, uno dei maggiori esponenti degli studi territorialisti, auspica un mondo globale fatto di “made in”. Un mondo, dunque, come sistema di territori in relazione, ciascuno dei quali, pregno delle proprie peculiarità, disegna la propria differenziata traiettoria di sviluppo. Ogni territorio con un proprio nome, una propria reputazione, con le proprie caratteristiche e i propri talenti.
L’ipotesi “territorialista” di Becattini è accolta – si richiama l’attenzione soprattutto di chi è rimasto fermo alle urla dei no global e agli incendi del popolo di Seattle – nel sistema giuridico che disciplina il mercato globale. L’art. IX (mark of origin) dell’Accordo Gatt del 1947, recepito nel Trattato dell’Organizzazione mondiale del commercio (Wto, 1994), tutela le iniziative dei Membri che mirano a valorizzare la reputazione dei prodotti sulla base della “country of origin”. L’art. 22 dell’Accordo sulla Proprietà intellettuale dell’Organizzazione mondiale del commercio tutela la relazione tra la reputazione dei territori e la reputazione dei prodotti (“Geographical indications are, for the purposes of this Agreement, indications which identify a good as originating in the territory of a Member, or a region or locality in that territory, where a given quality, reputation or other characteristic of the good is essentially attributable to its geographical origin”) e acconsente a che i Membri si adoperino per valorizzare economicamente tale relazione attraverso un marchio d’origine.
La visione del Wto è territorialista, dunque. Essa si fonda infatti, al pari di tutte le Organizzazioni inter-nazionali, sulle “nazioni”, e riconosce peraltro che specifici luoghi (indicazioni geografiche, distretti industriali) abbiano, nei secoli, sviluppato caratteristiche tali per cui essi esprimono abilità produttive che sul mercato il consumatore desidera riconoscere ed apprezzare, per fondare anche su tali informazioni e consapevolezze i propri comportamenti d’acquisto e il proprio modo di abitare il mercato globale. Al lettore attento non sfuggirà la necessità di questo riconoscimento e di questo “reddito” per la sopravvivenza delle produzioni territorialmente caratterizzate (made in).
Su tutt’altra posizione si pone il progetto progressista dell’Unione Europea, concepita per cancellare le nazioni e per disegnare, da Bruxelles e con i programmi di spesa confezionati nel packaging europeista, un futuro illuminato per le ex nazioni europee e, se possibile, per il mondo intero. Un futuro, quello immaginato dagli europeisti ed esentato dalle valutazioni dei popoli (elezioni), basato sul “medicare” (ex post) invece che sul “prendersi cura”; un futuro orientato al Green o alle politiche gender, mai ai luoghi. Si noti: gli esponenti della Commissione europea sono essi stessi “a-local”; grazie alla meticolosissima narrazione che ne fanno i media, essi, cognitivamente posizionati in un ambiente mitico, quasi mistico, non si recano mai in nessun luogo, non toccano mai il terreno del reale, non camminano sulle strade e non visitano le fabbriche. Chiamata a pronunciarsi sul “made in”, dunque sulle norme nazionali attraverso le quali alcuni Stati (Germania, Regno Unito) hanno cercato di rendere visibile la provenienza dei prodotti per consentire al consumatore di selezionare anche su tale base i propri acquisti, la Corte di Giustizia Ue si è così espressa: “Non si può fare a meno di ammettere che le indicazioni o la marchiatura d’origine mirano a consentire al consumatore di effettuare una distinzione fra le merci nazionali e quelle importate e danno quindi loro la possibilità di far valere gli eventuali pregiudizi contro i prodotti stranieri. Si deve ricordare che, come la Corte ha avuto occasione di rilevare in vari contesti, il trattato, mediante l’instaurazione di un mercato comune e grazie al ravvicinamento graduale delle politiche economiche degli Stati membri, mira alla fusione dei mercati nazionali in un mercato unico aventi le caratteristiche di un mercato interno. Nell’ambito di un siffatto mercato, la marchiatura d’origine rende non solo più difficile lo smercio, in uno Stato membro, dei prodotti degli altri Stati membri nei settori di cui trattasi; essa ha inoltre l’effetto di frenare l’interpenetrazione economica nell’ambito della Comunità, ostacolando la vendita di merci prodotte grazie alla divisione del lavoro fra gli Stati membri” (par. 17, Sentenza 25 aprile 1985, causa 207/83, Commissione Europea vs Regno Unito).
Come può notare lo sguardo attento, la Corte di Giustizia non esita a considerare il “made in” come un ostacolo incompatibile con il disegno europeista (il trattato mira alla fusione dei mercati nazionali; frenare l’interprenetrazione economica nell’ambito della Comunità) e a sancirne il sacrificio sull’altare dell’integrazione europea.
Il dualismo tra principio funzionale e principio territoriale fornisce utili strumenti per analizzare il conflitto tra Wto ed Unione Europea, come pure per comprendere l’essenza delle discussioni di questi giorni circa l’organizzazione dei processi decisionali (task force europeista vs istituzioni nazionali) che dovranno tracciare il futuro dell’Italia post-Covid. Nell’uno e nell’altro caso agisce infatti, seppure velatamente, il dualismo tra il principio territoriale e quello funzionale, tra il mondo dei luoghi e il sogno europeo dei non-luoghi.
Utile tenerlo a mente.