Lo scontro tra Trump e Biden può essere anche derubricato ad una lotta tra un magnate dai capelli cotonati color carota ed un signore liberal sorridente ben addentro da sempre alla macchina politico-amministrativa di Washington. Ma saremmo alla fisiognomica lombrosiana, più vicino al tifo circense che alla comprensione politica. E poco ne ricaveremmo per capire perché – nonostante quello che a noi sembra, cioè l’irritante e volgare arroganza – l’imprenditore diventato presidente abbia raccolto quella quantità di voti. E ancora lotti con le unghie e coi denti urlando ai quattro venti le sue ragioni e trovi consensi forti disposti a schierarsi con lui, sfidando anche la Corte Suprema.



Quello che avviene però negli Stati Uniti non è solo spettacolo da guardare con sufficienza. La verità è che la politica fa vedere attraverso lenti distorte quello che avviene nella società, nel suo profondo. Ecco allora che si può leggere in filigrana la crisi profonda dell’unica potenza globale rimasta, attraversata da linee di frattura molteplici che mettono in discussione addirittura la sua tenuta istituzionale e persino sociale.



Perché in realtà dietro il contenzioso elettorale ci sono in gioco concezioni diverse di cosa sia una “nazione” e uno “Stato”. Il punto di partenza è rappresentato infatti proprio da cosa siano gli Stati Uniti, Stato con doppia testa, Stato federale e Stato nazionale, dove la tensione, sempre rimasta massima, che ha portato ad una guerra civile – primo conflitto industriale della storia – è riesplosa con le ondate migratorie, non solo anglosassoni e protestanti. Una tensione che è stata sopita dal New Deal, dalle politiche keynesiane, dall’economia di guerra, dall’impegno continuo dello scontro anche armato col nemico ideologico: tutti confronti che hanno rafforzato la Stato centrale. La nazione però non è mai stata completata: troppo grande e con troppi diversi i pezzi per essere una confederazione efficiente come la Svizzera, adesso affronta le diverse crisi con gli strumenti non funzionanti delle politiche multiculturali e delle follie di genere e del politicamente corretto che invece di unire dividono, spezzettano una società in mille frammenti richiedenti diritti universali e nessun dovere verso la comunità originaria.



Finita la centralità delle organizzazioni di massa fondanti lo Stato nazionale, scomparsa la leva obbligatoria – pilastro dello Stato-nazione europeo dai tempi di Napoleone –, chiuse le grandi fabbriche dei campioni nazionali dove gli operai-massa erano pilastro e consumatori, senza più ruolo i grandi sindacati che hanno fatto la storia epica del lavoro americano cantata da Woodie Guthrie, sono rimaste sul tappeto le tessere del mosaico ma si è scolorito il disegno complessivo.

Ma il quadro non sarebbe completo se non si segnalassero altri due colonne necessarie a tenere assieme uno Stato nazione. La mancanza da sempre di un sistema educativo nazionale di qualità e accessibile a tutti che adesso è ancor di più diventato di classe, per di più indebolito dalle lotte in favore della correttezza politica, e di scarsa qualità. Al suo posto, nel ruolo di agenzia identitaria capace di costruire una koinè nazionale, una cultura dell’entertainment pop che distribuisce però prodotti validi su scala globale.

Anche il mondo economico è stato attraversato dalla stessa linea di frattura, internazionalismo globalista contro nazionalismo particolare, rappresentato questa volta dall’affermarsi dalle grandi aziende HighTech multinazionali e dal mondo della turbofinanza senza patria. Cosi il destino dei lavoratori non può che apparire segnato, mettendo loro a disposizione lavori post-industriali, non qualificati, nel settore non infinito dei servizi.

Ed ecco il risultato. Gli Stati Uniti, impero senza nazione, Stato decostruito, dove l’industria dei media ha trasformato i cittadini in un’audience multiculturale internazionale e l’industria postmoderna ha ridotto i produttori di una volta in consumatori globali.

Non stupisce quindi che dietro i modi di Trump si riconosca un mondo frastagliato, caotico, anche violento, che ancora non ha prodotto una sintesi, un progetto politico, figurarsi un discorso pubblico di buon gusto e culturalmente raffinato. Così nel grande pentolone del trumpismo ribollono diversi ingredienti. La sopravvissuta industria nazionale, i bianchi del Sud, gli ex operai degli Stati interni, il mondo agricolo, le minoranze etniche  identitarie, i federalisti estremi al limite dell’anarchia, i conservatori religiosi, l’estrema destra patriottica, il pragmatismo isolazionaista, l’antipatia per la burocrazia delle organizzazioni internazionali che non risponde a nessuno, la lotta contro i nuovi oligopoli cibernetici senza radici e quant’altro. E la lotta non può essere che all’ultimo sangue, nel paese che ha segnato la storia del mondo del ventesimo secolo.

Se non bastasse, ecco l’arrivo della pandemia a segnare ancora di più le differenze sociali, a rimarcare le vecchie diseguaglianze e a portarne di nuove, buttando sulle spalle di chi governa, chiunque sia, un compito enorme. Perché se non vogliamo che l’entropia prenda il sopravvento, le società postmoderne con le loro moltitudini sradicate vanno comunque governate.