CRISPR-CAS9, LA RIVOLUZIONE DELL’EDITING GENETICO

L’editing genetico viaggia a velocità diverse a seconda delle sue applicazioni, dalla medicina all’agricoltura, ma in ogni caso permangono preoccupazioni su questa tecnologia, CRISPR-Cas9, che offre prospettive rivoluzionarie per la nostra salute e la nostra alimentazione. Può aiutare le colture a fronteggiare la crisi climatica, ma anche curare alcune malattie, infatti nei mesi scorsi è stata approvata nel Regno Unito e negli Stati Uniti la prima terapia genica per due malattie del sangue, l’anemia falciforme e la beta-talassemia.



Delle ricadute anche nell’agricoltura, di ricerca e sperimentazioni e di quanto può fare il giornalismo per favorire una corretta informazione e comprensione abbiamo discusso con Anna Meldolesi, che si occupa di giornalismo scientifico in prima persona, oltre a insegnarlo, e che della rivoluzione di CRISPR-Cas9 parla nel suo blog, nei suoi articoli e nei suoi libri.



Da giornalista scientifica esperta di CRISPR-Cas9, quali sono le scoperte più significative che ha osservato in questo campo?

In campo medico c’è già stata un’approvazione da parte sia degli Stati Uniti, dell’Unione Europea e anche delle autorità britanniche del primo farmaco basato su CRISPR-Cas9, che è la prima terapia genica, quindi è iniziata ufficialmente la stagione di CRISPR-Cas9 in medicina. Per quanto riguarda le applicazioni agroalimentari si sta procedendo un po’ lentamente, principalmente per le incertezze regolatorie che ci sono, per cui ci sono pochi prodotti disponibili per nicchie di consumatori solo in qualche Paese.



Il primo Paese ad autorizzare qualcosa è stato il Giappone, con un pomodorino che produce una sostanza potenzialmente utile per controllare la pressione sanguigna, ma si tratta di un prodotto di nicchia. Allo stesso modo, negli Stati Uniti sta iniziando una commercializzazione, però non su larga scala, di una misticanza, di un’insalata pensata per consumatori attenti ai benefici per la salute del consumo di vegetali. In generale, si sta un po’ aspettando, perché il mercato è tutto interconnesso e prima di cercare l’autorizzazione per qualcosa bisogna capire come si muoverà l’Unione Europea. Questo sta sicuramente rallentando la commercializzazione dei veri prodotti.

I prodotti allo studio hanno benefici diversi ridurre l’impatto ambientale dell’agricoltura, ridurre l’applicazione di pesticidi e fungicidi, con piante resistenti a patogeni, parassiti. Su questo fronte ci sono già progressi abbastanza consistenti grazie a CRISPR-Cas9, ad esempio è stato autorizzata per la prima volta una sperimentazione in campo in Italia dopo vent’anni di stop: si tratta di una varietà di riso potenzialmente resistente a una malattia fungina.

Alcuni dei filoni di ricerca che ancora non sono maturi, ma sono potenzialmente straordinariamente interessanti dal punto di vista ambientale, sono per esempio quelli per cercare di potenziare la resistenza delle piante a siccità e ondate di calore, problematiche che sono legate ai cambiamenti climatici e che saranno sempre più rilevanti per il futuro dell’agricoltura.

Crede che il problema della crisi climatica possa accelerare la ricerca?

Sicuramente c’è una maggiore consapevolezza del fatto che l’agricoltura deve innovare, perché cambia il clima, cambiano di conseguenza le condizioni meteorologiche con gli eventi estremi, cambiano anche l’area di diffusione delle malattie vegetali. Tra i vari tipi di innovazione ovviamente c’è l’innovazione genetica. La Commissione europea ha motivato la spinta per riformare il quadro regolatorio con due argomentazioni principali: la prima è che sono arrivate queste nuove tecnologie che sono diverse rispetto a quelle che hanno caratterizzato la prima generazione di OGM, la seconda è che c’è la necessità di preparare l’agricoltura ai cambiamenti climatici e anche a cercare di soddisfare i vari target verso la sostenibilità ambientale fissati a livello comunitario.

Per cui la crisi climatica rappresenta sicuramente una spinta, ma i risultati non sono ancora pienamente a portata di mano. Ad esempio, si lavora per modificare l’apertura e la chiusura dei pori sulle foglie in modo da perdere meno acqua per traspirazione, oppure si lavora per migliorare il funzionamento delle radici in modo che si riesca a pescare l’acqua più in profondità, o magari modificare il tempo di fioritura in modo da evitare i periodi più secchi e siccitosi in modo che la pianta non venga danneggiata, molteplici sono i filoni di ricerca di questo tipo.

Addirittura poi ce ne sono anche alcuni ancora molto più ambiziosi, questi però sul lungo periodo, per cercare di potenziare la capacità delle piante di immagazzinare anidride carbonica come strategia per ricatturare le emissioni climalteranti.

L’Italia a livello di ricerca a che punto è rispetto al panorama internazionale?

In Italia ci sono dei bravissimi ricercatori che però sono rimasti 20 anni senza poter fare sperimentazione in campo; quindi, chiaramente da questo punto di vista bisognerebbe recuperare il tempo perduto. Sicuramente l’Italia è molto forte in genomica, abbiamo molte conoscenze, però andrebbero messe a frutto. Sperimentare al chiuso dei laboratori non basta, perché bisogna poi vedere come la pianta si comporta in condizioni realistiche, che sono quelle sperimentazioni in campo. Sicuramente abbiamo dei bravissimi ricercatori, una bella tradizione genetica agraria e anche una richiesta economica da parte di produttori in alcuni settori di risolvere problemi concreti.

Per esempio nella vite c’è questa malattia fungina che è l’oidio, che comporta l’utilizzo di grandi quantità di fungicidi. Per questioni di sostenibilità, ma anche di salute dei coltivatori e viticoltori stessi, e anche per il fatto che le normative europee stanno diventando via via più stringenti dal punto di vista ambientale, avere delle viti in cui basta modificare solo qualche lettera del Dna per renderle resistenti in modo da ridurre drasticamente l’uso di prodotti chimici, mantenendo esattamente inalterato il genoma (senza modificare l’identità genetica della vite che è molto importante in questo settore), è una cosa che incontrerebbe sicuramente il favore di molti viticoltori.

Ci sono prodotti a cui hanno contribuito i ricercatori italiani, per esempio pomodori arricchiti di vitamine che potrebbero essere assolutamente interessanti e ci sono ricerche altrettanto interessanti fatte all’estero, come per esempio il frumento che, quando viene usato per realizzare i prodotti da forno cotti, tostati o fritti, non sviluppa componenti cancerogene, quindi sono più sani. Per cui, sicuramente ci sono delle applicazioni anche utili per i consumatori, a differenza della prima generazione Ogm, le cui caratteristiche erano utili soprattutto ai coltivatori, per cui i consumatori non vedevano facilmente il vantaggio. Invece, in questo caso i vantaggi sono più tangibili anche per i consumatori.

Allora perché poi l’editing del genoma è un tema controverso anche in agricoltura?

Ci sono ancora pochi studi, poche conoscenze, vedremo quando si arriverà la commercializzazione in Europa che tipo di reazione ci sarà, perché per ora pochissimi sanno cos’è CRISPR-Cas9, cos’è l’editing genetico; quindi, diciamo c’è una generalizzata diffidenza nei confronti dell’innovazione genetica in agricoltura, una scarsa conoscenza insomma degli avanzamenti e delle caratteristiche diverse di questa fase.

Ad esempio, si parla di “nuovi Ogm”…

Finché non ci sarà diciamo la riforma del quadro europeo effettivamente queste piante nuove ricadono comunque sotto la direttiva sugli Ogm pur essendo state sviluppate con tecnologie che quando quella era stata provata non esistevano; quindi, diciamo che c’è un pasticcio anche giuridico da sbrogliare attraverso appunto un nuovo quadro regolatorio.

Parliamo di qualcosa di geneticamente modificato? Certo, tutto è geneticamente modificato, per cui dire che sono i nuovi ogm non è tecnicamente sbagliato, però è fuorviante, perché quello che le persone capiscono è che equiparano la parola ogm a transgenico e invece in questo caso l’editing genetico per quanto riguarda le applicazioni come quelle dell’Università di Milano non prevede il trasferimento di geni da una specie all’altra, quindi non sono prodotti transgenici. Allora è una bugia o no? Nì. Quello che si fa, invece di spostare geni da una specie all’altra, è correggere il Dna come se fosse una mutazione di quelle che avvengono spontaneamente in natura.

Quando si parla di rischi si fa riferimento spesso a mutazioni genetiche involontarie e all’impatto sull’ecosistema che potrebbero avere queste tecnologie, cosa ne pensa?

Le mutazioni avvengono continuamente in tutti gli organismi viventi, stanno avvenendo anche in questo momento mentre ci parliamo nelle mie cellule, nelle sue cellule, per cui non vanno viste come qualcosa di fantascientifico o alieno, sono un processo naturale per cui quando le cellule si dividono qualche lettera cambia, sono la base dell’evoluzione, se no non si sarebbe evoluta la vita sulla Terra. La pianta viene studiata in laboratorio, viene testata in campo, si vede se funziona bene o se non funziona bene e se non funziona bene si scarta.

Il problema è di proporzionalità, perché io sto producendo mutazioni esattamente come potrebbe avvenire in natura, per cui non avrebbe senso applicare requisiti talmente stringenti da soffocare la tecnologia per uno stesso cambiamento che potrebbe verificarsi in un modo di cui neanche mi accorgerei. Per cui è una questione di proporzionalità tra i vari modi di fare miglioramento genetico: ad esempio oggi comunque si fa miglioramento genetico deregolamentato con mutazioni indotte in maniera più imprecisa attraverso sostanze chimiche e in maniera inconsapevole, perché sono mutazioni che induci in maniera casuale.

Per quanto riguarda l’impatto sull’ambiente, rendendo una pianta coltivata resistente, l’ambiente ne guadagna perché uso meno fitofarmaci. Inoltre, durante la sperimentazione in campo vengono valutati tutti i possibili rischi per l’ambiente e si raccolgono molti dati per poter fare scelte consapevoli. Poi nell’esperienza umana non esiste mai il rischio zero, ma questo per nessun’attività, anche per l’agricoltura biologica non esiste il rischio zero; quindi, si tratta di fare i paragoni giusti.

Ha notato differenze nella percezione di CRISPR-Cas9 tra il pubblico italiano e quello di altri Paesi?

Rispetto al CRISPR-Cas9 e all’editing genomico nell’ultimo sondaggio, uno di pochi che è stato fatto a livello europeo, ciò che contraddistingue l’Italia è più che altro che siamo meno informati, cioè meno persone sanno cos’è l’editing genetico e quali sono i problemi dell’agricoltura; quindi, c’è una minore consapevolezza su CRISPR-Cas9. Ma l’Italia storicamente è stato uno dei Paesi in cui le polemiche sugli OGM hanno raggiunto temperature molto alte, ma non siamo soli, per esempio anche in Francia e in Gran Bretagna è successo.

Sicuramente c’è stata una trasversalità quasi dell’opposizione a livello di schieramenti politici, cosa che però un po’ è cambiata, perché per esempio le organizzazioni degli agricoltori erano divise sul tema, mentre oggi sono almeno sulla carta tutte favorevoli, tranne quelli che rappresentano il biologico, ma chi rappresenta l’agricoltura convenzionale è favorevole alle tecnologie genomiche.

Secondo lei il giornalismo scientifico cosa può fare per a livello anche di favorire una comprensione di rischi e benefici su CRISPR-Cas9?

La cosa importante è non ridursi a fare informazione solo dopo che scoppia qualche controversia, ma iniziare a seminare buone informazioni prima. Vent’anni fa c’è stata una rincorsa a gestire le crisi, si rispondeva alle fake news, agli scandali che poi non erano scandali, e c’era tutto una rincorsa a fare debunking. L’informazione però funziona molto meglio se si fa in maniera precoce, quando ancora non ci sono pregiudizi che si sono radicati.

Bisognerebbe evitare la polarizzazione, essere capaci di ascoltare le perplessità, perché ovviamente la psicologia umana è tale per cui non è che se io presento tutti i dati scientifici del mondo automaticamente convinco le persone, ognuno è portatore di valori, esperienze, preferenze, per cui entrano in campo tanti fattori. Bisognerebbe sicuramente avere un approccio anche dialogante, attento a questi elementi della psicologia del pubblico, spiegando cosa c’è diverso e perché c’è bisogno di innovare in agricoltura, tanto più in una fase in cui siamo minacciati da cambiamenti climatici.

Può condividere qualche aneddoto o esperienza personale che evidenzi l’importanza della corretta informazione su CRISPR-Cas9?

Quando ho iniziato a occuparmi di biotecnologie agrarie, inizialmente avevo dei pregiudizi, ma ho iniziato a studiare e ho capito che erano pregiudizi, per cui ho cambiato idea e ho continuato a informarmi, perché bisogna aggiornare le proprie conoscenze, le proprie posizioni, a seconda di come cambia la cornice, di come cambiano le esigenze, come cambiano le tecnologie etc… Domenica ero a “Il Tempo delle Donne”, questa grande manifestazione alla Triennale di Milano organizzata dal Corriere della Sera, in cui ho fatto un intervento su quanto è importante essere aperti al dubbio, a cambiare idea portando proprio l’esempio delle nuove biotecnologie.

Bisogna parlare alle persone spiegando che ci sono degli elementi di novità e che cambiare idea è sicuramente faticoso, perché a volte comporta dover non solo magari ammettere di essersi sbagliati in passato, ma può comportare di dover rinunciare a un pezzetto della propria identità culturale. Parlare di questo, di questi meccanismi secondo me ha funzionato bene, perché qualche persona poi all’uscita mi ha detto “io ero contro gli Ogm, adesso ci sto ripensando”.

Alla fine la conoscenza si autoalimenta, quindi è normale arrivare a cambiare idea di fronte a nuove scoperte…

Però una comunicazione troppo forte e aggressiva spesso porta chi ti ascolta a respingere le tue argomentazioni, per cui bisogna riconoscere anche la complessità psicologica.

Si punta forse troppo lo scontro più che al dibattito…

In quel caso ognuno sta nella sua fazione e guarda l’altro come un nemico; invece, bisognerebbe cercare di rompere questi schemi, in modo tale da vivere questa nuova fase delle biotecnologie agrarie come un capitolo nuovo.

Quali sono le prospettive della terapia genica grazie alle innovazioni prodotte da CRISPR-Cas9?

Nel campo della medicina ci sono tante potenzialità per CRISPR-Cas9, il problema è che le terapie sono molto molto costose, questa prima che è stata approvata è stata messa in listino per più di 2 milioni di dollari. Ovviamente si spera che un unico trattamento valga per tutta la vita e sostituisca i trattamenti cronici costosi. Sono cure altamente personalizzate e sono molto sofisticate e costose, quindi il vero rischio etico è di non poterle rendere accessibili a tutti.

Ci devono essere dei passi avanti tecnologici per ridurre i costi di questi trattamenti, servono progressi nella gestione delle politiche sanitarie dei rimborsi, delle regolamentazioni, per fare sì che tutto questo ecosistema, che serve per far nascere un nuovo farmaco e una nuova cura renda questi farmaci sostenibili per i sistemi sanitari. Per quanto riguarda l’agricoltura, il problema non sono in primis i costi. Se si dovessero mettere in campo regolamentazioni con requisiti onerosi, simili a quelle degli Ogm, questo farebbe lievitare i costi e sarebbe una zavorra per lo sviluppo della tecnologia.

Come valuta la risposta dell’Europa in termini di regolamentazione?

È in atto una revisione del quadro regolatorio. La Commissione Ue si è mossa con una proposta di regolamento che è stata accolta positivamente dalla comunità scientifica, perché per le correzioni che non prevedono spostamento di geni da una specie all’altra prevede una regolamentazione più leggera, soprattutto per le piante che hanno un vantaggio ecologico. C’è stata già un’approvazione da parte del Parlamento europeo, ma ci sono ancora dei punti da discutere. Ora è stata inaugurata la nuova Commissione, quindi bisognerà riprendere il cammino. L’Italia è schierata a favore, altri Paesi sono più cauti, inoltre l’iter europeo prevede una complessa triangolazione, ma sono cautamente ottimista.

(Silvana Palazzo)