“Hafez è come un pesce, se lo togli dal mare muore”. Così Maysa mi aveva presentato suo marito, nella loro casa a pochi metri dalla spiaggia, a Gaza. Era novembre del 2022, con il clima ancora mite e annaffiando le piante in giardino, Maysa mi aveva spiegato che non era scappata con la sua famiglia di origine dalla Striscia solo per amore di suo marito: Hafez non poteva vivere senza il mare.



È mancato, all’improvviso, per un infarto, a febbraio di quest’anno, ma Maysa vive ancora lì, sola, nella sua villetta accanto al mare. Ha contagiato anche lei l’amore per questa Striscia di terra, dove da 16 anni la guerra si alterna alle tregue. Dal 2007, da quando Hamas ha preso il controllo di Gaza e al conflitto con Israele si è aggiunto quello tra le diverse fazioni palestinesi. Apparteneva a una di quelle più radicali l’assassino del fratello di Maysa: Rami. Era il direttore della Società della Bibbia, è stato sequestrato, torturato e ucciso. Perché cristiano. È stato allora che tutti i familiari di Maysa sono scappati e si sono trasferiti in altre città palestinesi. Neppure i suoi due figli, una volta laureati, hanno resistito a Gaza, dove il tasso di disoccupazione è tra i più alti del mondo. Issa, laureato in economia, ha raggiunto a nuoto la Turchia e ora vive in Germania; Michel, padre di due bambini, ha approfittato del permesso di uscita in occasione delle feste natalizie per andare a Betlemme e non tornare più a Gaza.



Si aggiungono alla lunga lista di gazawi, diventati quasi apolidi nella loro terra. Perché per uscire dalla Striscia occorre un permesso speciale delle autorità israeliane, sempre temporaneo. Chi decide di trasferirsi in altre città palestinesi vive per anni sospeso, senza documenti validi per lo Stato di Israele non può attraversare alcun confine; vive per anni diviso dai famigliari, a cui vengono spesso poi negati i permessi di uscita dalla Striscia più blindata e affollata del mondo.

Di due milioni di abitanti, solo 1.065 oggi sono cristiani. I cattolici sono 120. Eppure la comunità cristiana di Terrasanta, soggetta alle restrizioni più dure, sia interne che esterne, è viva e sa essere anche gioiosa. Non c’è visita del Patriarca in cui non si celebri almeno un battesimo, comunioni e cresime. La parrocchia è il cuore della vita della comunità e diventa un rifugio per più di una famiglia, a ogni ciclico acuirsi del conflitto, quando ai lanci di missili dalla Striscia seguono i raid di risposta dell’aviazione israeliana. Mi sono chiesta più volte da dove sorgesse, questa speranza irriducibile dei cristiani che ho conosciuto nelle mie visite di questi anni a Gaza, dove a togliere il respiro è la mancanza di libertà, una sorta di punizione collettiva per decisioni, interessi, violenze di altri.



Ho visto la risposta nella fede semplice di famiglie che non rinunciano a generare figli, negli occhi e nelle mani delle suore di madre Teresa che accolgono piccoli disabili, altrimenti condannati all’incuria, nella presenza infaticabile dei religiosi della Congregazione del Verbo Incarnato, a cui è affidata la parrocchia, nelle suore che dirigono la scuola migliore della Striscia, frequentata anche da alcuni rampolli di chi la governa.

Più che legittima è anche la speranza di un futuro diverso in chi da Gaza è, invece, scappato per non tornarci più. Come Marcel, che vive a Betlemme con le sue tre figlie e non vede suo marito da quasi quattro anni, in attesa di un permesso di uscita che non arriva mai. Mi hanno aperto la loro casa e il loro cuore, hanno rischiato nel raccontarmi la loro storia, intrisa di ferite e incomprensioni, ma certa di un destino buono, in cui il filo della speranza è da riannodare ogni mattina.

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