Le persecuzioni dei cristiani in Medio oriente non sono mai state un fenomeno sconosciuto: in Iraq, ad esempio, pur trovando il loro apice con l’avvento dell’Isis nel 2014, le persecuzioni erano già presenti prima e durante il conflitto del 2003 (anno della cosiddetta Seconda guerra del Golfo frutto dell’attentato dell’11 settembre 2001, dove si vide all’opera la coalizione internazionale guidata dagli Stati Uniti), tanto che prima della guerra i cristiani iracheni erano circa 1-1,2 milioni, ridotti a poche centinaia di migliaia (circa 250-350mila) nel 2014.
Oggi, tra varie tensioni politiche, la comunità cristiana è in ricostruzione, soprattutto dopo l’avvento dell’Isis, che è stato tragico per i cristiani, costretti ad abbandonare le loro case da un giorno all’altro. Poi, con la sconfitta del Califfato, è avvenuto che molti tornassero alle loro case, non senza un aspetto drammatico: non solo ad attenderli c’era la distruzione, ma qualcosa di più profondo e radicato nell’animo. Infatti se per gli adulti tornare a Mosul o nella piana di Ninive significava un ritorno a casa, per i bambini non era così: per loro, “casa” voleva dire abitare nei centri profughi e il “ritorno” era l’andare in un posto sconosciuto. Non sono solo le case quelle da ricostruire, ma l’identità stessa di un popolo, chiamato a riabitare la propria terra in modo nuovo.
Come riporta Acs, la situazione non sempre è idilliaca: “Cinque anni dopo la proclamazione ufficiale della vittoria sull’Isis dell’Iraq, le ramificazioni dell’occupazione jihadista di ampie parti del Paese sono ancora evidenti. I jihadisti sunniti continuano ad agire e hanno persino intensificato gli attacchi contro gli sciiti in grandi città come Baghdad e Bassora. […] I cristiani esitano a tornare a Mosul, l’ex ‘capitale’ dell’Isis. Nella Piana di Ninive, tuttora il cuore della presenza cristiana, la situazione economica e il livello di sicurezza sono pessimi a causa delle milizie settarie”. Allora perché tornare ad abitare una terra che li rifiuta e nella quale c’è anche il grande problema della convivenza con l’islam? “Era impossibile immaginare che le nostre città fossero state liberate e noi rimanessimo distanti qualche chilometro. Siamo legati a questa terra da migliaia di anni, dall’inizio dell’era cristiana siamo qui. Sentiamo l’obbligo di testimoniare in questa terra” (don George Jahola, parroco di Qaraqosh).
Allo stesso tempo molti piccoli segni di speranza sono accaduti, come la possibilità di utilizzare di nuovo le chiese e di far suonare le campane. Ma, soprattutto, è accaduta la visita del Santo Padre nel 2021, la prima di un Pontefice.
Tuttavia la libertà religiosa tuttora rimane non garantita, tanto che lo stesso patriarca Sako, cardinale, si è spinto a dichiarare che i cristiani “rischiano di scomparire presto se non vi sarà un cambiamento nel pensiero e nel sistema statale”. Il particolare il porporato ha dichiarato che l’eredità islamica in Iraq “rende i cristiani cittadini di seconda classe e permette l’usurpazione delle loro proprietà”.
Grazie ad Acs domenica 12 maggio ci sarà la possibilità di ascoltare un testimone diretto di tutto questo, mons. Felix Dawood Al Shabi, vescovo della Diocesi di Zakho dei Caldei, nel Kurdistan iracheno, al confine tra Siria (20 km) e Turchia (5 km). Perché vale la pena conoscere la situazione di una realtà così distante da quella europea? Semplicemente perché “Se un membro soffre, tutte le membra soffrono insieme; e se un membro è onorato, tutte le membra gioiscono con lui. Ora voi siete corpo di Cristo e sue membra, ciascuno per la sua parte” (1Cor 26-27).
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