Due pezzi di legno. A volte con un condannato a morte inchiodato sopra, a volte senza perché comunque il significato è chiaro lo stesso. In origine un patibolum, il palo orizzontale, e uno stipes, il pezzo verticale, poi replicati in miliardi e miliardi di esempi, ricchissimi artisticamente o poveri e contorti, comunque due assi ortogonali inchiodati fra loro a formare una croce. Hanno provato a toglierla dalle aule scolastiche e dagli uffici pubblici, ma poi rimaneva il segno sul muro, naturalmente a forma di croce.



Il portale del Club Alpino Italiano nei giorni scorsi ha pubblicato un articolo dal titolo “Croci di vetta: sbagliato rimuoverle, anacronistico istallarne di nuove”, a firma Pietro Lacasella. “La società attuale si può ancora rispecchiare nel simbolo della croce? Ha ancora senso innalzarne di nuove? Probabilmente la risposta è no. La croce non rappresenta più una prospettiva comune, bensì una visione parziale e il messaggio trasmesso dai rilievi dev’essere riadattato sulle caratteristiche e sulle necessità di un presente che non ha più bisogno di eclatanti dimostrazioni di fede, ma di maggiore apertura e sobrietà”.



L’uomo ha raggiunto la maturità, non ne ha più bisogno. La croce di Cristo non rappresenta più un simbolo nel quale possa riconoscersi. Nessun problema, invece, per una bella fila di pale eoliche, che rovinano lo skyline ma producono energia pulita. O anche niente a simbolo del nulla nel quale l’uomo contemporaneo sembra essersi votato.

I credenti non perderanno la fede per questo, ma viene da pensare che male faccia un croce a chi non crede. A ben vedere, anche le chiese sono simboli di un credo religioso appannaggio ormai d’una minoranza: perché non abbatterle o trasformarle in granai come nell’Unione Sovietica staliniana, fermo restando il divieto di costruirne altre? E dei nomi delle vie, degli ospedali, dei teatri, di migliaia di paesi e perfino di città che portano il nome di un santo che ne facciamo? Non possono essere anch’essi elementi divisivi fra chi crede e chi no? Per non parlare dei nomi propri di persona, che osiamo ancora chiamare “di battesimo”, che bisognerebbe proibire per legge. Togliamo, cancelliamo, azzeriamo in nome del politicamente corretto e del rispetto per l’altro, come se chiamarsi Giovanni o Assunta, così come teatro San Carlo a Napoli oppure ospedale Papa Giovanni XXIII a Bergamo impedisse ad un soprano di deliziare gli ascoltatori, ad un medico di operare, ad un ammalato di sottoporsi alle cure e sperare nella guarigione.



Ci hanno provato nelle scuole, dove però una sentenza del 2011 della Corte europea dei diritti dell’uomo ha dichiarato che il crocifisso può bene stare dove si è sempre trovato in quanto “non costituisce un atto di discriminazione” nei confronti di nessuno.

Ci proveranno, prima o poi, anche con le cime delle montagne. “La croce che pensiamo alta in cima al monte è il segno della solitudine nella morte. Non conosco altri segni che diano con tanta forza il senso del nostro umano destino. Il crocifisso fa parte della storia del mondo”. Di tutto il mondo, anche di quello che crede in altro ma non smette di interrogarsi. Lo scriveva Natalia Ginzburg, figura di primo piano della letteratura italiana del Novecento, iscritta al Partito comunista e certo non cattolica osservante.

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