Il dato sull’inflazione americana, più alta delle attese e ai massimi degli ultimi 40 anni, ha messo in discussione l’ultima trincea con cui i mercati avevano difeso i listini e cioè che l’inflazione avesse raggiunto il picco e in un tempo non troppo esteso sarebbe scesa. È la seconda trincea dopo quella da cui ci si era ritirati quando in autunno era venuto meno lo scenario di inflazione transitoria con cui le banche centrali avevano dilazionato il rialzo dei tassi. Il numero di container che entrano negli Stati Uniti negli ultimi giorni è crollato; la domanda di beni, le importazioni, stanno già scendendo alla velocità della luce colpite sia dall’inflazione che mangia il potere di acquisto dei consumatori, sia dalle scorte che negli ultimi mesi sono state fatte, per tutelarsi dai problemi sulle forniture, e che oggi acuiscono il calo della domanda. Il problema diventa evidente ogni giorno che passa: fino a che punto e a che prezzo, in termini di declino economico, le banche centrali possono provare a contenere l’inflazione?
Essa, in parte, è legata agli aiuti statali e a una politica monetaria accomodante, ma c’è molto di più; le tensioni geopolitiche, la transizione energetica, e la ristrutturazione delle catene di fornitura globale, con la fine di una certa globalizzazione, generano inflazione a prescindere dal comportamento delle banche centrali.
In Europa c’è un secondo dilemma: il rialzo dei tassi, la fine delle politiche monetarie espansive aprono la frammentazione in seno all’Unione europea. La domanda che bisognerebbe farsi è come mai con una Bce che si rifiuta di comunicare il nuovo strumento di difesa contro gli spread e l’inizio del rialzo dei tassi l’euro scenda. L’euro che scende, ovviamente, rischia di annullare qualsiasi effetto abbia la politica monetaria contro i prezzi dato che con una valuta più debole un continente che non ha risorse “sue” importa più inflazione. L’euro scende perché il mercato torna a scommettere sulle tensioni in Europa e sulla rottura dell’euro. Il cds sull’Italia, il rischio che il debito venga ridenominato in un’altra valuta, è oltre i livelli del marzo del 2020 quando l’Italia aveva il governo Conte, la Bce non aveva messo in campo lo strumento del Pepp e il Bel Paese era ridotto a una landa desolata dalla quarantena più dura e lunga dell’Occidente. Oggi lo spread sale, il rendimento del decennale italiano anche e il cds segnala allarme rosso con il Governo Draghi e un’Europa che tutti ci hanno detto essere uscita più unita che mai dalla pandemia e dalle sanzioni contro l’Ucraina.
Il problema dell'”Occidente” è che sta crollando un modello senza che nessuno abbia mai spiegato le sue fragilità. Politicamente il passaggio è delicatissimo perché un’intera classe politica dovrebbe spiegare 30 anni di bugie e infatti si parla di “inflazione Putin” anche se i record trentennali dei rialzi dei prezzi sono arrivati tre mesi prima dell’invasione russa dell’Ucraina.
In questo contesto l’Italia ha un ruolo particolare. È possibile risolvere il problema italiano tirando la cinghia? Molto probabilmente siamo oltre questo scenario anche ipotizzando un’operazione di verità politica che sembra impraticabile nella realtà. Perché in questo scenario si esplorano le fragilità dell’Italia molto più che della Spagna? È difficile credere che sia per il debito più alto visto che non c’è un’economia sviluppata che non navighi nel debito e non faccia deficit record. Il problema dell’Italia è che in questa fase si sta arrivando all’osso delle valutazioni economico-finanziarie e nessun Paese come il nostro negli ultimi anni ha ceduto sovranità reali e interessi geopolitici. L’Italia non ha indipendenza energetica, avendo subito senza fiatare, per esempio le evoluzioni politiche libiche; anche con l’Egitto i rapporti sono guasti e l’Algeria, che sarebbe il nostro sostituto d’elezione del gas russo, si appresta a firmare un accordo di cooperazione militare con Putin. L’unico meccanismo di autodifesa che rimane all’Italia è, paradossalmente, proprio quello di poter minacciare, gestendola, la ridenominazione del suo debito. Non perché sia la panacea di tutti i mali, anzi, ma perché è l’ultima difesa alla sovranità delle sue imprese e delle sue partecipazioni statali. Il rischio è che agli italiani rimanga il debito dopo lo scippo, a prezzi di saldo, di tutto quello che ha ancora qualche valore.
In questo scenario il sottostante del debito italiano è il più evanescente di tutto l’Occidente. Non perché non ci sia, gli italiani anzi hanno case, risparmio e imprese, ma perché non è più il Governo italiano che lo controlla. Lo controllano i creditori con una pervasività che non ha eguali in Europa e senza alcuna difesa da parte italiana come dimostra il dibattito sul Mes che nessun altro Paese europeo si sogna di firmare.
La necessità di un colpevole esterno a cui attribuire ogni colpa, in questa congiuntura particolare, fa paura perché l’incentivo ad alzare lo scontro per evitare di affrontare i problemi interni è massimo. È vero ovunque nell’Occidente che fa fatica, è notizia di tre giorni fa di Bloomberg, certo non un organo di informazione “putiniano”, persino a garantire la “supply chain”, la catena di fornitura, della sua industria militare. In Italia tutto questo assume una connotazione particolare.
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