Il mercato finanziario pretende rispetto. Tutti noi pretendiamo rispetto e, magari, anche un minimo di educazione nei molti, infiniti, rapporti interpersonali che caratterizzano il trascorrere delle singole giornate. Questo rapporto binario rispetto-educazione viene ritenuto, almeno per chi scrive, una condizione obbligante e imprescindibile per il buon proseguimento di ogni relazione. Nulla di stravolgente sia chiaro, ma è bene riportarlo e, soprattutto, ricordarlo come premessa che, senza grandi difficoltà, si può immaginare come condivisa da tutti.
Alla base di questa “banale” considerazione ci sono gli accadimenti finanziari che nel corso di queste ultime giornate hanno caratterizzato questo già caldo periodo estivo. È ben nota la pesante flessione registrata dal mercato nipponico a inizio settimana e, tornando indietro a quelle ore, il clima che si poteva respirare era verosimilmente catastrofico. Il termine “crollo” risultava sobrio e fin troppo riduttivo se contestualizzato all’effettiva discesa dei prezzi. Il clamore e il facile richiamo a tempi molto lontani quali possibili riferimenti per la drammaticità di quelle ore gridavano a gran voce. Un Giappone targato anno 2024 accostato a quello del 1987: tutto accaduto in una sola giornata e senza alcuna speranza per l’indomani. Ripensateci. Rileggete. Il ricordo è ancora vivo.
Sovente, in queste circostanze, serviva qualcosa per placare (non arginare) lo smarrimento umano. Era necessario un qualcosa, un motivo, una causa, insomma “un cosa” o, magari, “un qualcuno” al quale addossare almeno “il perché”. Quel perché. Alle prime ore di lunedì il colpevole non era stato ancora individuato, mentre, per una (la) possibile causa ci si era rifatti alle ultime ore dell’ormai trascorsa ottava. Si trattava di una ricerca ai soli fini di una veloce e immediata cronaca del momento senza alcune pretese di soddisfare il vuoto conoscitivo dell’essere umano che, inerme, non smetteva di sperare. Il palliativo o presunta colpa potenzialmente appetibile veniva servita. Diamine, era l’inizio della settimana e, per tale appetito, ci voleva qualcosa di esclusivo.
A seguire il menù: prima portata a base di pessime trimestrali Usa, un secondo piatto a sfondo recessione e, mai e poi mai dimenticare un contorno fresco, di stagione. Conflitto bellico a scelta. In fondo, però, come detto, era solo l’inizio di una nuova settimana borsistica e, pertanto, il pubblico meritava qualcosa di più appagante, sofisticato, ricercato. Ed ecco trovata la soluzione a questo bulimico bisogno. Anzi, ecco, giungere “la trovata” quale completamento al caro (conto salato e già pagato) intrattenimento destinatario di ambiziose stelle. Voilà: carry trade. Per tutti.
Questo è stato additato come il prevalente “cosa”, “colpevole”, “perché” al pari di un pirandelliano Uno, nessuno e centomila motivi alla base del crollo asiatico. Carry trade, una sfiziosità, rara, e ai molti commensali sconosciuta che, in quanto tale, si presenta appetitosa. La novità messa in tavola è stata subito gradita. Ovunque, tutti, ne parlavano, ma pochi, pochissimi, sapevano l’effettivo significato. Saziarsi era l’importante.
Oggi, con questo nostro approfondimento, non abbiamo la presunzione di insegnare o correggere qualcuno e, infatti, riportiamo la definizione che si può consultare dal sito internet di Banca d’Italia: «Carry trade. Strategia finanziaria per la quale un investitore s’indebita per un dato ammontare nella valuta di un Paese in cui i tassi di interesse sono bassi (funding currency), converte tale ammontare nella valuta di un Paese in cui i tassi di interesse sono elevati (target currency) e acquista attività finanziarie denominate in quest’ultima divisa senza coprirsi dal rischio di cambio e con l’attesa di lucrare sul differenziale di interesse. Una variante di tale strategia consiste nel vendere valute per le quali il tasso di cambio a termine è apprezzato rispetto al tasso di cambio a pronti e contestualmente comprare valute per le quali il tasso di cambio a termine è deprezzato rispetto al tasso di cambio a pronti».
Si tratta di un piatto decisamente complesso che, nonostante la sua difficile spiegazione ha, però, riscontrato gradimento ovunque. Tutti ne hanno apprezzato l’esclusività dell’idea e soprattutto della “materia prima”. Ma, ora, una degna conclusione a questo imperdibile menù. Un buon amaro.
Si è parlato di carry trade quale trigger e market mover per il crash nipponico: siamo sicuri che sia stato questo? Ci sono elementi oggetti a supporto di questa ipotesi? Chi ha trattato questa tesi è effettivamente a conoscenza della contropartita acquistata? Perché carry trade sì e qualsiasi altro (sell off algoritmico) no? E su questa falsa riga potremmo continuare all’infinito. A noi, il solo carry trade, non convince. Troppo facile o, viceversa, “solamente” sbagliato. Per comprendere a fondo la tematica e sostenerne l’argomentazione della stessa sono necessari elementi che, umilmente, potremmo classificare come “sconosciuti” perché di difficile reperimento o, alternativamente, “improbabili” poiché riservati a personale autorizzato. Palesare, quindi, una verità come se fosse evidente appare ostico.
Per chi volesse approcciare il tema carry trade suggeriamo di consultare il sito internet di Banca d’Italia dove possono essere visionati due distinti Working Papers del settembre 2011 (N. 817 – Le determinanti macroeconomiche del carry trade) e del gennaio 2016 (N. 1046 – La strategia finanziaria del carry trade e il tasso di cambio: evidenza da un modello TVAR). Pur essendo un breve e circoscritto accenno a questa vasta strategia risulta evidente la complessità delle variabili in gioco.
Vogliamo fermarci qui, immaginando, la vostra curiosità nell’apprendere la nostra “verità” che, prontamente, sveliamo: la borsa nipponica nelle ore successive ha recuperato il terreno perduto al pari delle altre principali piazze finanziarie internazionali. Carry trade finito? Questo è stato e questo è il mercato finanziario che, doverosamente, pretende rispetto.
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