Nel 2019 la produzione industriale è tornata a scendere dopo cinque anni. Secondo l’Istat, si stima infatti un calo dell’1,3% rispetto al 2018, quando si era registrata una crescita dello 0,6%: è la prima diminuzione dal 2014 ed è la più ampia dal 2013. “Ora la questione industriale in Italia – osserva Luigi Campiglio, professore di politica economica all’Università Cattolica di Milano – rischia di diventare quasi insanabile. Se non riprendiamo a crescere, finiremo per rimanere intrappolati in una situazione da cui poi diventa obiettivamente molto difficile uscire. E in questo intrappolamento generale, non si tratta di far intervenire stabilmente il pubblico. Ma tocca al potere politico la responsabilità di rimettere in movimento la struttura produttiva”.
Secondo l’Istat la produzione industriale non era così bassa dal 2012. È vero che rallentano anche Germania e Francia, che la Cina risentirà dell’epidemia da coronavirus e che presto sentiremo gli effetti della Brexit, ma è tutta e solo colpa di uno scenario internazionale che si fa di nuovo molto cupo?
I fattori elencati bastano e avanzano e l’analisi dell’Istat mostra quanto il livello di produzione industriale in Italia sia tornato indietro al 2016. Ma il dato che più balza agli occhi è che a dicembre 2019, prendendo il valore 2015 uguale a 100, la produzione italiana e quella tedesca sono più o meno sullo stesso piano, poco sopra 88. In pratica, stiamo seguendo molto da vicino, quasi incollati, la dinamica della produzione industriale tedesca. Osserviamo, cioè, una contrazione della produzione industriale in dicembre che va in parallelo con quella della Germania.
I dati dell’Istat ci dicono che la crisi della produzione italiana è un po’ diffusa in tutti i settori…
E questo è un dato che ci deve preoccupare: il 2019 sul 2018 inanella una sfilza di segni meno. Qualora dovesse proseguire questo trend, soprattutto la diffusione a tutti i settori industriali, ci dobbiamo attendere una frenata nel primo trimestre 2020.
Infatti, dopo l’allarme del governatore della Banca d’Italia, Ignazio Visco, in merito alle possibili ripercussioni negative sulla già debole ripresa italiana dell’epidemia da coronavirus, ieri l’Ufficio parlamentare di bilancio ha tagliato le stime 2020 della crescita a un modesto +0,2% rispetto al +0,5% indicato dal governo. Un altro anno perso? Non c’è il rischio che la questione manifatturiera in Italia diventi irreparabile?
Sono anni che cerco di mettere in guardia da questo pericolo e comunque non vorrei essere troppo profeta di sventura, ma il rischio c’è. Lo vedremo già con il consuntivo 2019 sugli investimenti in termini reali, scoprendo di quanto sono o non sono cresciuti in Italia. Di certo, questo non è un quadro molto favorevole a ciò di cui abbiamo bisogno, e noi abbiamo assoluto bisogno di crescere. Purtroppo, oltre ai problemi strutturali che ci trasciniamo da decenni, ci sono altri fattori che giocano contro.
Quali?
In particolare la vicenda coronavirus. Come tutti, mi auguro che il focolaio venga contenuto al più presto, ma la dirigenza cinese si sta giocando la reputazione internazionale su questa epidemia. E sarebbe pericoloso se si riaprissero troppo presto le porte degli scambi, anche se non è certo l’export il veicolo del virus, ma psicologicamente è come se lo fosse. Finché la Cina non potrà dichiarare pubblicamente di aver circoscritto, non dico eliminato, il fenomeno, fino a quel momento è molto probabile attendersi una crescita a scartamento molto ridotto. E se fosse vero, come dicono alcuni analisti, che il vero nemico del virus potrebbe essere solo la stagione calda, vorrebbe dire come minimo bruciare un trimestre sull’altare della mancata crescita.
Condivide, allora, l’allarme del governatore Visco?
Io penso che l’impatto del coronavirus sulla Cina sarà pesante e il taglio del tasso di crescita dell’economia cinese sarà più consistente rispetto all’attuale previsione, che non vorrei fosse troppo ottimistica, di un calo dal +6% al +5%. Anche i mercati finanziari restano un po’ perplessi: il rimbalzo cui abbiamo assistito era dettato dal fatto che con quotazioni molto basse diventava conveniente acquistare. Ma l’umore potrebbe presto cambiare.
In Italia, seconda potenza manifatturiera d’Europa, si parla più di prescrizione che di crisi industriale. Non le sembra strano?
Un problema del far politica oggi è che si perde contatto con i timori e le speranze delle persone. A far male, ormai da troppi anni, è che il Paese non cresca. Se noi non riprendiamo a crescere e se la crescita resta confinata nel libro dei sogni, rischiamo di rimanere intrappolati in una situazione da cui poi diventa obiettivamente molto difficile uscire. Bisogna parlare e occuparsi seriamente di produzione industriale, perché significa parlare e occuparsi della vita quotidiana delle persone.
Lo stesso governatore Visco ha ribadito che solo una riforma organica del fisco e il rilancio degli investimenti potrebbero far ripartire l’economia, e quindi l’industria. Il governo sta pensando di ridisegnare l’Irpef: si va nella giusta direzione?
In queste proposte il diavolo si annida nei dettagli. Vorrei però dire che in questo frangente, e non da adesso, a mancare è la fiducia nel futuro. Il clima, cioè quel che fa la differenza, non è certo di esuberante crescita.
Aver mostrato troppe incertezze su Industria 4.0 è stato un errore che ha minato la fiducia degli imprenditori?
Sono pienamente d’accordo. Per un Paese come il nostro l’innovazione è una delle due o tre vie d’uscita dalla recessione.
E gli investimenti? I cantieri che dovevano essere aperti subito? Dove sono finiti?
Non fare gli investimenti è un atto di puro autolesionismo del potere politico verso il Paese.
L’Unione Europea ha promesso risorse per accelerare una svolta green dell’industria. È una misura che può dare davvero ossigeno?
Se le proposte della Commissione von der Leyen di cui si parla verranno varate, diventando convenienti anche per chi alza il sopracciglio sui temi ambientali, potranno senza dubbio sortire un effetto molto positivo, di cui peraltro abbiamo bisogno come il pane, visto che viviamo in un paese d’argilla, dove frana tutto.
Come provare a fermare questa fragilità, questa erosione?
Gli investimenti sono in molti a richiederli e in forme svariate, ma poi non si realizzano. Nè quelli privati né quelli pubblici. Bisognerebbe rilanciarli entrambi, o meglio: gli investimenti pubblici potrebbero aiutare a rilanciare quelli privati.
Dunque, la prima mossa tocca al governo, che deve dare un segnale forte sugli investimenti pubblici?
Sì. In questo intrappolamento generale, non si tratta di far intervenire stabilmente il pubblico, ma tocca al potere politico la responsabilità di rimettere in movimento la struttura produttiva. Non possiamo condannarci a un iperliberismo scervellato.
(Marco Biscella)