Bene la detrazione, perché riguarda chi lavora. Non per emarginare gli incapienti, ma perché per intervenire sulla denatalità occorrono misure destinate al ceto medio. L’assegno unico ha una funzione importante, ma complementare, spiega al Sussidiario Gian Carlo Blangiardo, presidente dell’Istat, docente emerito di demografia nell’Università di Milano Bicocca.
In ogni caso non basta agire sulle risorse. Chi ha figli deve sentirsi gratificato da una scelta politica. Serve flessibilità: i sindacati devono cambiare passo. Non c’è solo la Francia: a Bolzano c’è un modello sociale virtuoso che attende di essere “esportato”.
Non c’è il rischio che un aiuto economico alla natalità, comunque lo si pensi, sia visto in modo strumentale?
Dipende dal premio, cioè da come viene concepito e presentato. Mettiamoci nei panni di coloro che hanno fatto una scelta, quella di avere figli, e ne vivono appieno la difficoltà giorno dopo giorno. Occorre creare le condizioni per rendere questa scelta più sopportabile. Qui ci sono due aspetti da considerare.
Vediamoli.
Uno è l’aiuto economico. L’importo non è indifferente. Ma non basta agire sulle risorse. I figli sono un bene non solo per i genitori, ma per tutti. Per tutti noi, dunque per il Paese. È questo che i dati sulla natalità dovrebbero far capire. C’è quindi anche un aspetto di gratificazione per la scelta compiuta che è pienamente meritato e va considerato attentamente.
Che cosa intende?
Lo Stato non dà solo un importo, ma col sostegno esprime riconoscenza verso chi sceglie di dare la vita. Chi fa figli deve percepire di non essere solo nel fare la scelta, ma di avere intorno una comunità, una sfera pubblica, che apprezza e gli è riconoscente. Le possibilità per farlo sono molteplici.
E per questo che ha detto che occorre “fantasia”, proponendo perfino di agire sul canone Rai?
Sì. Prendiamo i nostro 400mila nati annui e ipotizziamo, come a mio avviso si dovrebbe fare, di aiutare i genitori dal secondo figlio in su. Se moltiplichiamo i circa 100 euro di canone per i poco più di 200mila bambini dal secondo ordine in su che sono nati in un anno, otteniamo una spesa nell’ordine di 20 milioni di euro per lo Stato. Il programma di Fazio costa 18 milioni di euro l’anno. Sia chiaro, lo dico solo per avere un termine di confronto.
Serve una scelta politica.
Certo. E ogni scelta politica veicola un senso. Anni fa avevo un’auto a Gpl e per questo ero esentato dal bollo. Non pagarlo non mi cambiava la vita, ma era a suo modo gratificante. Se un provvedimento simile si legittima perché è più ecologico, la sostenibilità demografica è una ragione più debole?
La proposta Giorgetti, la detrazione fiscale, per ora è solo un annuncio. Ma è l’idea giusta?
Sì, perché è uno sgravio fiscale che scatta quando sussistono certe condizioni. L’obiezione più comune alla detrazione come tale è quella della capienza, e quindi l’impossibilità – per una parte della popolazione – di portare in detrazione alcune spese. Quindi l’obiezione è: gli incapienti rimangono fuori.
Cosa risponde?
Rispondo che così ricadiamo nella logica di chi ritiene di affrontare il problema dando bonus agli incapienti o ai redditi bassi. È la vecchia soluzione dell’incentivo alla natalità per le classi più disagiate. In questo senso l’assegno unico universale è stato un salto di qualità, ma non basta a cambiare la situazione, perché per rilanciare la natalità dobbiamo intervenire sul ceto medio.
Cioè la maggioranza degli italiani.
Esatto. Padre e madre, lavorano entrambi, non sono ricchi, pagano le tasse. Un figlio normalmente lo fanno, sono in dubbio se farne un secondo. Ecco perché la detrazione a mio avviso funzionerebbe.
Vediamo le cose da un altro punto di vista. Il cluster riproduttivo è quello dei giovani 25-34 anni. Oggi è un’età difficile, segnata da incertezza e instabilità lavorativa. Molti non hanno un lavoro e neppure lo cercano. Quindi, per aiutare la natalità, diamo a tutti loro un aiuto economico.
Dipende… Dar loro qualcosa sempre e comunque sarebbe sbagliato, è una logica da reddito di cittadinanza. Vogliamo creare le condizioni perché questi giovani volino fuori dal nido? Si intervenga sulle regole del mercato del lavoro. Pensare che dando loro l’assegno escano di casa, si sposino e facciano figli mi pare molto teorico e assai poco giustificabile.
Per incentivare la natalità le donne italiane dovrebbero lavorare di più o di meno?
Devono lavorare di più in condizioni di conciliazione, cioè realizzarsi professionalmente senza per questo esserne penalizzate. Non dovrebbero trovarsi di fronte all’alternativa tra essere madri e fare le lavoratrici. La pandemia ci ha fatto scoprire nuove soluzioni? Usiamole, troviamone di nuove, che non siano l’imboscamento nella pubblica amministrazione come molte volte succede.
Il Governo in quale direzione dovrebbe guardare?
Dire la Francia, dove vige il quoziente familiare e dove c’è stato e c’è tuttora un relativamente consistente numero di nascite, è scontato perché lo sanno tutti. Ci sono esperienze virtuose anche in casa nostra, una di queste è il modello Bolzano: nell’80% dei comuni della provincia la natalità è in aumento. La presenza lavorativa femminile è forte, si ricorre a tutta la flessibilità possibile per conciliare famiglia e lavoro, non solo nel pubblico ma anche nel privato. In pratica fare la madre è più facile che altrove.
Suggerimenti per replicare il modello?
Un invito ai sindacati: abbandonino logiche corporative, e sui temi che riguardano la conciliazione abbiano un approccio flessibile, diversificato da azienda ad azienda e da territorio a territorio, favorendo l’incontro e l’accordo tra lavoratori, lavoratrici e datori di lavoro.
Il contributo migratorio può essere la soluzione al calo demografico?
No. Il contributo migratorio è importante perché i nati stranieri sono il 14% delle nascite totali, se ad essi aggiungiamo i nati misti perché uno dei due genitori è italiano saliamo al 20%. È un contributo importante, ma non determinante.
Perché?
Il tasso di natalità della popolazione straniera è sceso rapidamente dai 23 per mille residenti del 2004 agli 11 per mille del 2022. Cioè si è dimezzato. Il gap di 14 punti che c’era nel 2004 rispetto al tasso di natalità degli italiani, adesso è di 6 punti. Vuol dire che la componente straniera, una volta in Italia, converge verso il modello autoctono.
Cosa significa?
Significa che il problema non sta nell’essere stranieri o italiani, ma è immanente al Paese. Semplificando, una volta che si è in un determinato territorio la priorità è quella di tirare avanti nella vita di tutti i giorni nel miglior modo possibile. Se questo non consente di avere i figli sperati, vi si rinuncia.
C’è una lezione che sta emergendo dal dibattito sul calo demografico e sulle soluzioni da adottare per invertire la tendenza: lo Stato sembra avere un compito insostituibile.
Concordo pienamente. Il suo ruolo è quello della regia degli attori che devono interagire nel gioco, una serie di “satelliti” che sono indispensabili perché lo Stato da solo non ce la fa, ma che deve coinvolgere: dalle pubbliche amministrazioni locali al privato sociale, al mondo delle imprese. Ma lo Stato non può abdicare, non può non esserci.
Dunque è sbagliato ritenere che esso debba sparire a vantaggio dei “satelliti”, che poi sono la società, come vorrebbe la ricetta neoliberale ritenendo che essi siano capaci di fare da soli.
Sarebbe sbagliato anche questo, e il calo demografico in parte ne è la prova. Lo Stato deve chiamare al tavolo chi è disponibile a dare una mano, e definire le regole per metterlo in condizione di poterlo fare. Deve dire all’imprenditore: mi piacerebbe che nella tua impresa le tue dipendenti fossero messe più facilmente in condizione di essere madri, e se lo fai non solo ti faccio cavaliere del lavoro, ma ti dò una mano con sgravi fiscali e incentivi. È questo, secondo me, il vero compito che spetta a chi governa.
(Federico Ferraù)
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