Lo spopolamento progressivo del Paese è in corso da oltre un ventennio senza che ci sia stata alcuna reazione efficace. Il calo delle nascite pare un dato quasi estraneo alla vita quotidiana a cui guardare, qualcosa che inciderà in un tempo futuro anche remoto. Solo che a forza di pensare che sia un problema di domani, l’oggi, che altro non è che il futuro del nostro passato, ci presenta il conto. Meno ragazzi nelle scuole, meno talenti da crescere, meno spalle su cui contare significa avere una ricchezza complessivamente inferiore, già ora, rispetto a quella che servirebbe. Figurarsi tra qualche anno. La stima che ha fatto rumore in questi giorni è la riduzione prevista di oltre 2,2 milioni di cittadini italiani non nel “solito” Mezzogiorno ma nel ricco e produttivo Nord entro il 2040, data che, giova ricordarlo, è molto più vicina dell’anno 2000. Solo sedici anni. Meno di un ciclo scolastico.
Per dirla chiara, non è un problema di svuotamento di un bacino che ne riempie un altro, ovvero un problema di emigrazione da aree depresse, bensì una vera e propria resa al futuro della parte più ricca e dinamica del Paese. Il fenomeno produce un effetto dirompente sulla sostenibilità del Paese nella sua interezza. Il debito pubblico graverà su meno cittadini, ci saranno meno lavoratori per pagare le pensioni, meno lavoratori per alimentare il sistema produttivo. In pratica una mancanza della risorsa più preziosa ed insostituibile, quella umana. Come uscirne?
Il tema ha due aspetti. Il primo culturale. Abbiamo costruito una società che ha agevolato l’accumulo delle risorse personali sul principio dell’anzianità. Più si va avanti più crescono pensioni, agevolazioni, detassazioni. Più si viene da un sistema di vantaggio più si sancisce il diritto a mantenerlo. I famosi “diritti quesiti” che le corti di merito e di legittimità ritengono intangibili sanciscono che se qualcuno è stato trattato meglio prima, ha diritto ad essere tratto così in futuro. In questo senso si è espressa la Corte Costituzionale, ad esempio, quando si è provato a tagliare per legge le pensioni d’oro. Ritenute intangibili anche se spropositate ed insostenibili.
A questo si aggiunge la tutela dei patrimoni accumulati, in immobili o in altre forme, che vengono tassati molto meno del lavoro. Per intenderci, se oggi si ha un immobile a reddito ed una pensione si pagano meno tasse, a parità di incasso, rispetto a chi lavora ed avrà in futuro una pensione neppure paragonabile a quelle pagate oggi. Se si preferisce destinare i soldi dello Stato, perché questi sono, per pagare gli sconti fiscali su chi accumula e non su chi lavora, si impedisce ai giovani di avere un reddito tale da immaginarsi una vita autonoma e quindi costruire un percorso che li porti a metter su casa. Il lavoro dei giovani, in particolare, dovrebbe essere tassato meno, non le rendite di chi ha dalla sua solo maggior tempo per accumulare. Ed anche sulla casa le scelte vanno contro i ragazzi e quindi contro la loro voglia di farsi una famiglia. Negli ultimi anni il Paese è diventato un albergo diffuso fatto di ex appartamenti divisi in stanzette, più o meno carine, da affittare ai turisti. Al punto che, nelle grandi aree urbane, nelle zone di maggior pregio, i prezzi degli immobili schizzano oltre ogni limite di sostenibilità per un acquisto da parte di chi si avvia al lavoro e vorrebbe avere una casa più grande ed accogliente in cui immaginare di far crescere i figli. Che poi, una volta nati, non si sa dove mettere, perché gli asili, strutture di supporto per chi lavora, in molte zone del Paese, sono semplicemente insufficienti se non inesistenti.
Perciò fare un figlio, o più di uno, diviene economicamente spesso impossibile. Due ragazzi che lavorano a stento si possono permettere un bilocale in zone periferiche. Figurarsi un trilocale con cameretta. E senza supporto familiare dovrebbero avere un reddito importante per gestire l’infanzia dei figli. A questo si aggiunge – altro aspetto – che proprio per avere noi come Paese questo culto dell’anzianità, che non va confusa con la vecchiaia che è età sacra, abbiamo espulso culturalmente il merito e tendiamo a non apprezzare altro se non ciò che ha “esperienza”. Un falso mito della società contadina, quando la capacità arrivava solo dall’aver vissuto, e non dallo studio, l’applicazione, l’innovazione.
Questa trappola fa sì che ci si affidi a percorsi sperimentati, personalità esperte, tutti modi per rifiutare visioni innovative e, spesso, portate da chi ha ancora la freschezza e la gioventù come valore. E questo si riflette sul reddito che assegniamo a chi entra al lavoro, che va pagato meno perché inesperto anche se formato, che va pagato meno perché deve apprendere anche se usa i mezzi tecnici molto meglio di chi, casomai, lavora da decenni.
E questo ci rassicura e ci fa sentire forti come “esperti”, ma al contempo rappresenta la debolezza maggiore della nostra società, che non accetta e non valorizza in modo corretto le energie immense ed imparagonabili che la freschezza dei giovani porta. In questo contesto chiedere alle nuove generazioni di riprodursi è un atto quasi provocatorio, per non dire egoisticamente ingiustificato.
Il compito di chi si sente alla guida del Paese in ogni campo è quello di creare le condizioni affinché le nuove generazioni si affermino e superino in capacità e forza chi li ha preceduti, mettendoli in condizione di essere protagonisti e maturi, di avvertire la fiducia nei loro confronti, dandogli l’occasione di crescere come persone e farli maturare invece che giustificarne l’immaturità con la nostra esperienza inarrivabile. Se avessero occasioni, reddito e case avrebbero il piacere di avere figli e farli crescere nella consapevolezza di vivere in un contesto che accoglie le giovani famiglie, che valorizza il merito e riattiva l’ascensore sociale che serve a tutti noi per avere una società più dinamica e ricca, una società che possa, nel futuro, sostenere la gran massa di esperti anziani, che saranno a quel punto vecchi, e che senza un base sociale fatta di giovani famiglie dinamiche ed in crescita non ha un gran futuro, ma forse solo il rischio di fare una non bella vecchiaia.
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