La drammatizzazione degli effetti della pandemia Covid sull’occupazione nel secondo trimestre dell’anno in corso era ampiamente attesa, dato che nei mesi di aprile e di maggio si sono concentrate le conseguenze dei provvedimenti amministrativi che hanno imposto un blocco, parziale o totale, delle attività economiche per oltre un terzo della produzione e dei servizi. I dati rilevati dall’istituto di statistica nazionale sono da brividi (-470mila occupati rispetto al trimestre precedente e – 841mila rispetto al medesimo periodo del 2019).



Però questi numeri non vanno analizzati con le consuete metodologie che spiegano in modo lineare l’andamento dei tre aggregati principali della popolazione in età di lavoro: gli occupati, i disoccupati, le persone inattive. Infatti, i provvedimenti amministrativi hanno generato dei paradossali effetti di sovrastima degli occupati formalmente censiti e, nel contempo, di sottostima delle potenziali conseguenze negative dell’emergenza sanitaria ancora in corso. Le misure di distanziamento hanno provocato il sostanziale blocco del turnover del personale, soprattutto per le assunzioni dei lavoratori a termine, stagionali, intermittenti e occasionali, che rappresentano un volume medio mensile di oltre 250mila nuove attivazioni da parte delle aziende. La diminuzione di questi contratti è stata di 295mila unità su base trimestrale e di 667mila su quella annuale. Un fenomeno analogo è avvenuto per il lavoro autonomo per le mancate aperture delle nuove partite Iva, -121mila rispetto al primo trimestre e – 219mila sull’anno precedente.



La colossale perdita di occupati non si è riversata, come ragionevolmente dovrebbe avvenire, nel numero delle persone che cercano lavoro, per l’impossibilità delle persone coinvolte di cercare nuove opportunità lavorative. Questo spiega la paradossale diminuzione di 647mila disoccupati rispetto al medesimo periodo del 2019 anno e l’aumento record del numero delle persone inattive di 1,31 milioni di unità.

Contemporaneamente il blocco dei licenziamenti e l’utilizzo massiccio delle casse integrazioni, che hanno compensato la perdita del 21,4% delle ore lavorate, hanno nell’insieme contribuito a contenere il potenziale dimissionamento di una quota significativa di lavoratori, che formalmente continuano a risultare occupati, e persino consentito un lieve aumento su base annua di quelli dipendenti a tempo indeterminato. Difficile allo stato attuale valutare concretamente il rischio della perdita di posti di lavoro, con il ritorno nel gennaio 2021 del regime ordinario per i licenziamenti e per l’utilizzo delle Cig.



In termini settoriali la caduta dell’occupazione si è concentrata soprattutto nei comparti dei servizi maggiormente colpiti dagli effetti dell’emergenza sanitaria: gli alberghi e la ristorazione (-246mila), il commercio (-191mila) i servizi domestici alle famiglie (-125mila). Tra le figure professionali più colpite: i camerieri, i commessi, gli addetti alle vendite al minuto, le colf e le badanti. Inevitabilmente i contraccolpi maggiori sono stati per le donne e gli immigrati che hanno tradizionalmente un peso elevato in questi settori, e per le mansioni con bassa qualificazione. Sul piano territoriale il calo dell’occupazione incide in modo più significativo sul Mezzogiorno (-5,3%), rispetto alle aree del Nord e del Centro Italia (-3%).

Come ricordavamo all’inizio, non dobbiamo considerare queste tendenze come strutturali. Infatti, con la ripresa delle attività nel mese di giugno e soprattutto in quello di luglio, che non rientra nella statistica trimestrale che stiamo commentando, alcuni segnali di inversione di queste tendenze si sono manifestati.

Tuttavia molte debolezze del nostro mercato del lavoro rischiano di pesare in modo particolare nella fase di assestamento e della rimessa in attività delle organizzazioni produttive. In diversi articoli precedenti abbiamo sottolineato quanto sia pericolosa la convinzione, purtroppo molto diffusa, che si debbano affrontare questi fenomeni mettendoli nel congelatore del blocco dei licenziamenti e dell’utilizzo massiccio delle casse integrazioni. I saldi occupazionali ritorneranno positivi solo incentivando il rapido riposizionamento delle imprese e delle competenze dei lavoratori, facendosi carico dei costi economici e sociali delle persone coinvolte, ma nella direzione di un impiego migliore degli investimenti e delle risorse umane. Da questo punto di vista, i numeri che abbiamo sinteticamente approfondito, e altri che vengono forniti dall’Istat riguardo la sorprendente capacità di ripresa della nostre aziende esportatrici, offrono alcuni spunti di riflessione.

Il primo: evidenziano che i margini di recupero dell’economia e dell’occupazione possono venire da una profonda riqualificazione dei comparti dei servizi, molti dei quali, come la sanità e l’assistenza alle persone, pesantemente sottodimensionati. Certo, per le attività dell’accoglienza turistica e della ristorazione la ripresa è prevedibile nel medio periodo, ma le basi di questa ripresa vanno poste nei prossimi mesi.

Un secondo spunto riguarda la qualità della nostra popolazione attiva, deficitaria per le competenze di base, non solo per quelle digitali che oggi vengono considerate, a ragione, come un complemento indispensabile per le professioni future. Deboli, e molto al di sotto delle richieste delle imprese, le specializzazioni tecniche. Sovrabbondanti ed esposte ai fenomeni dello sfruttamento e del lavoro sommerso le mansioni poco qualificate, con fenomeni di inattività preoccupanti per le giovani generazioni e di degrado e di sottoccupazione per gli immigrati. Nell’affrontare queste situazioni si continuano a fare errori grotteschi, come le finte politiche attive per i beneficiari del reddito di cittadinanza, la ridicola sanatoria per gli immigrati, l’illusione di imporre la buona occupazione a colpi di norme e di vincoli per le imprese, che finiscono per scoraggiare le assunzioni, a danno dei soggetti più deboli.

Nei prossimi mesi non servirà l’elenco dei buoni propositi che accompagnano le uscite delle autorità politiche e istituzionali, quanto la capacità di aggredire i nostri punti deboli con iniziative inedite e coraggiose.