Il tema del social housing è oggi sulla bocca di tutti. Si continua a parlare del problema delle case in affitto, di normative da rifondare, di come all’estero sia un’altra cosa, portando a sostegno dei discorsi esempi o modelli certamente meritori (vedi il caso di Torino e Italcementi, o di alcune cooperative).

Tutto questo gran parlare però rimane privo di qualsiasi corrispettivo nella realtà. Si parla, ma si fa poco o niente. In Italia invece l’esigenza è quella di una vera e propria riforma della casa. Una riforma coraggiosa, come lo sono tutte le vere riforme, semplice e chiara nella sua esplicazione e successiva realizzazione. Una riforma che ponga con chiarezza la responsabilità di ogni soggetto implicato, affrontando in modo costruttivo e propositivo il problema “casa”.



L’elemento cardine per una riforma del genere è l’attuazione di un surplus di sussidiarietà, che dia spazio e capacità di agire alle realtà sociali, cooperative e imprenditoriali che già operano in questo settore. A fianco ad esse l’istituzione pubblica e lo Stato in generale devono saper agevolare e rendere fruttuosa ogni singola responsabilità.



Per realizzare una tale riforma è necessario semplificare le fasi operative che compongono qualsiasi politica di social housing, e per farlo deve essere chiaro innanzitutto cos’è il social housing. Significa mettere a disposizione casa ad affitto calmierato per tutte quelle categorie sociali – di cui tutti parlano senza fare mai nulla – che appartengono alla cosiddetta fascia debole: per esempio i nuclei familiari o le giovani coppie a basso reddito, gli anziani in condizioni sociali o economiche svantaggiate, gli studenti o gli impiegati fuori sede o gli immigrati regolari. Gente che a fronte dell’attuale costo della vita non riesce a star dietro alle spese e quindi ad avere una vita decorosa, a maggior ragione se residenti nelle grandi città, Milano e Roma in primis.



Affitto calmierato significa un canone che non superi il 25-30% dello stipendio. Il social housing riguarda quindi esclusivamente case in affitto permanente (e non in acquisto, sia esso in edilizia libera o tramite cooperativa), che per esempio renda possibile abitare in un bilocale a una giovane coppia con un canone d’affitto attorno ai 500 € al mese.

È social housing perché è un intervento dal forte valore sociale: basti pensare alla possibilità di integrazione e di convivenza umana che darebbe a molti immigrati regolari o ai lavoratori fuori-sede. Il social housing potrebbe addirittura essere una risposta anche per la fascia dei meno abbienti, laddove le amministrazioni locali sopperiscano a parte del pagamento del canone con un voucher o un cosiddetto “buono casa”, con una logica di stampo “blairiano” (riferendomi alla politica dell’ex premier britannico Tony Blair): il contributo pubblico segue direttamente il destinatario dello stesso. Per intenderci, niente passaggi intermedi.

Un approccio di questo tipo porterebbe questa nuova politica di social housing a diventare il punto di riferimento su tutto il problema “casa”. Significa innanzitutto ripensare alle liste d’attesa, oggi regolate da logiche perverse secondo le quali soggetti con ambigue dichiarazioni dei redditi, o poveri che poveri non sono, usufruiscono di questa possibilità in modo indiscriminato e spesso criminoso, sfruttando con sub-affitti scandalosi tante persone che povere lo sono per davvero, e che si ritrovano a vivere in condizioni incivili e drammatiche.

Se invece la partecipazione sociale e cooperativa all’attuazione della politica di social housing fosse ben più che formale o burocratica (come lo è invece oggi), sarebbe certamente più difficile approfittarne. Dunque è necessario un surplus di sussidiarietà, che significa in realtà scoprire l’acqua calda, visto che in tutti i maggiori paesi d’Europa è già così: laddove l’amministrazione pubblica non può o non riesce a sopperire a un bisogno, favorisce e agevola l’intervento diretto della società civile e delle sue iniziative di aggregazione sociale, cooperativa e anche imprenditoriale. Stiamo parlando di professionisti competenti attivi da anni nel settore immobiliare, ma che oggi non riescono ad essere efficaci perché le amministrazioni pubbliche locali e lo Stato non gli danno gli strumenti e le agevolazioni necessari.

Detto questo, sono tre i passaggi principali perché questo processo di sussidiarietà sia efficace. Per prima cosa è necessario l’abbattimento del costo delle aree destinate al social housing, che devono essere date in gratuità o semi-gratuità, così come avviene in altri Paesi, soprattutto di stampo anglosassone, come il Regno Unito e il Canada, che si basano sul modello “Right to buy” britannico. E questo deve accadere specialmente nel caso di aree dismesse del patrimonio pubblico, o di proprietà di fondazioni, università o simili. Quel che certo non manca alle amministrazioni sono le aree inutilizzate. E parlo anche di quelle piccole aree di verde sparse per le aree urbane (di 5.000 o 10.000 mq) non curate e non utilizzate, trasformate in discariche abusive o in luoghi di aggregazione malavitosa. Questo tipo di patrimonio pubblico inutilizzato deve passare senza costi in mano agli operatori sociali, per diventare un’opportunità di risanamento delle città e, nel concreto, di costruzione di nuove case. La disponibilità delle aree deve però essere rapida, certa: in attesa di realizzare piani e macro-strategie di sviluppo territoriale a grande raggio, che spesso impiegano diversi anni per partire, queste piccole aree devono essere disponibili da subito e senza costi.

Il secondo passaggio è il miglioramento del meccanismo dei contributi. Invece che distribuirli a pioggia, con il risultato di non favorire i migliori e scontentare tutti, sarebbe molto più utile far partecipare le realtà locali all’abbattimento del costo del denaro per arrivare a ridurre, alla fine della filiera, il canone dell’affitto. Per abbattere il costo del denaro in molti Paesi europei lo Stato e i Comuni erogano alle aziende che si impegnano a costruire in social housing prestiti e mutui a tassi calmierati. È il caso della Danimarca e soprattutto della Francia, dove esiste il cosiddetto “prestito a tasso zero”, rimborsabile senza interessi e destinato unicamente alla costruzione di nuovi alloggi. Questo implica, anche da parte dei Comuni e delle Regioni, uno sforzo in ricerca tecnologica, in qualità dei materiali e dei progetti, in risparmio energetico e in eco-sostenibilità, mantenendo tempi di realizzazione al passo con la modernità (da 6 mesi a 1 anno), e non al passo “italiano” che va dai 2 anni in su.

In questi primi due passaggi la responsabilità maggiore, oltre che degli operatori sociali che poi ne devono sfruttare i vantaggi, è in mano alle amministrazioni locali: i Comuni per l’operatività sulle aree e le Regioni per la competenza legislativa.

Ma c’è una responsabilità dello Stato, che si aggiunge ai primi due punti. Ed è quella fiscale. È un insulto all’intelligenza di ogni cittadino che lo Stato abbatta l’imposta sul valore aggiunto sull’acquisto della prima casa o del box, e non lo preveda invece per chi va in affitto nella sua prima casa. L’abbattimento dell’IVA sull’affitto della prima casa è il primo e più importante contributo che lo Stato può e deve dare al social housing, ancor prima di redigere qualsiasi piano casa o qualsiasi mastodontica strategia di decentramento.

Questi sono i passi per l’attuazione di una vera politica di social housing: abbattimento del costo dell’area, partecipazione al costo del denaro delle amministrazioni locali e detassazione. È una proposta chiara e certamente efficace, a cui tutti ormai sono abituati ad annuire ma nessuno si prende la briga di attuare. La dirigenza pubblica, spesso appoggiata anche da realtà private, si nasconde per non rispondere ad una semplice domanda: se si riuscisse a realizzare questo salto di qualità nell’approccio al problema casa, chi sarebbe disposto ad accettare la sfida? Molte imprese, e anche molte cooperative, credono ancora che questa riforma non sia possibile, che i costi rimarrebbero troppo alti.

Ma la politica ha il compito di accettare certe sfide decisive con quel di più di gratuità necessaria in una società che voglia crescere a dimensione umana: ci vuole certamente un sacrificio e una dedizione da parte di tutti, pubblico e privato. Forse è questo che fa paura. Ma per uno sviluppo umano e civile di una società, ci vogliono persone (e quindi imprese, enti, aggregazioni) disposte a dar qualcosa di proprio per il bene di tutti.

La politica, in questo contesto, deve saper rinunciare a risolvere il problema con un approccio statalista, sia esso di natura ideologica o dovuto a un eccesso di protagonismo, e deve promuovere la società civile così che le forze migliori possano mettersi in gioco e rispondere coi fatti. Solo così si darà una definitiva e reale risposta al bisogno di abitare che c’è oggi nel nostro Paese. Chi ha le responsabilità e i poteri per cominciare, lo faccia subito.