L’annuale “Rapporto sulla povertà e l’esclusione sociale in Italia” presentato ieri dalla Caritas rilancia con forza dati ed elementi analitici già sufficientemente noti, desunti in buona parte dalle fonti ufficiali (ISTAT ed Eurostat in particolare). In particolare, torna a puntare l’attenzione su tre questioni centrali.



La prima riguarda le dimensioni della fascia di popolazione a rischio di povertà. La cifra monstre di 15 milioni di persone che vivrebbero sull’orlo o dentro l’abisso della povertà è un dato impressionante, che però andrebbe relativizzato tenendo conto delle particolari modalità di calcolo da cui trae origine. Tale cifra, contenente le due categorie dei “poveri” e dei “quasi poveri”, riguarda infatti la dimensione della povertà relativa, ovvero calcolata come scostamento della quota di consumi di una famiglia messa in relazione con la media dei consumi presenti nel complesso della popolazione. Il che, naturalmente, non significa automaticamente che quella famiglie possa essere definibile come “assolutamente povera”.



Si tratta di un tema annoso, che anche il “Libro Verde sul welfare” ha recentemente riproposto. Tutto ciò naturalmente nulla toglie a una percezione diffusa di impoverimento, che in Italia si respira fin dal 2002, anno dell’introduzione dell’euro con il conseguente balzo in avanti dell’inflazione percepita prima e di quella ufficiale poi. Percezione (e rischio concretissimo) che oggi tende a rafforzarsi sulla scorta della grave crisi finanziaria con la quale il mondo intero si sta misurando.

La seconda questione posta è anch’essa da alcuni anni al centro della riflessione sociologica e politologia, e riguarda le categorie a maggior rischio: persone non autosufficienti (soprattutto anziani) e famiglie con (tanti) figli. Come a dire che la povertà si annida là dove c’è bisogno di cura e, nel caso delle famiglie con figli, soprattutto là dove ci sono persone che si assumono maggiori responsabilità sociali. Un tema mai sufficientemente affrontato e che fa riflette sulla sostanziale ingiustizia del nostro sistema di politiche sociali.



Il che apre alla terza questione, e cioè quella dell’inefficacia delle misure pubbliche nel contrastare il fenomeno della povertà, poggiata invece su fondamenta statistiche più solide.

La tabella 1 mostra con chiarezza il fallimento delle politiche di trasferimento (monetari o in servizi) applicata nel nostro Paese e più in generale nei Paesi mediterranei, in particolare se si compara il dato con i Paesi scandinavi dal welfare “munifico”. È un dato che conferma la sensazione di un welfare italiano capace di garantire assistenza e servizi alle categorie più garantite, ingenerando un circolo vizioso che contraddice il principio stesso di redistribuzione insito nell’idea di welfare.

Tabella 1: Persone a rischio di povertà, prima e dopo i trasferimenti sociali (valori %)

 

Prima dei trasferimenti sociali (pensioni escluse)

Dopo i trasferimenti sociali

% di diminuzione

EU15

26

16

38,5

BE

27

15

44,4

DK

28

12

57,1

DE

26

13

50,0

IE

33

18

45,5

GR

23

21

8,7

ES

24

20

16,7

FR

25

13

48,0

IT

24

20

16,7

LUX

24

14

41,7

NL

21

10

52,4

AT

25

13

48,0

PT

25

18

28,0

FI

29

13

55,2

SW

29

12

58,6

UK

30

19

36,7

Fonte: Eurostat, 2006

Questo spinge la Caritas a mettere sotto accusa il modello di politiche sociali prevalente in Italia, e in particolare il sistema dei trasferimenti monetari, sotto le due forme degli assegni famigliari e delle indennità di accompagnamento. Trasferimenti che seguono protocolli generali e astratti e che paiono incapaci di intercettare e risolvere i bisogni più estremi, come appunti quelli di chi rischia la povertà. La proposta Caritas è di trasformare questo sistema in un modello fortemente personalizzato e, per quanto possibile, di convertire i soldi trasferiti in servizi.

Si tratta certamente di un tema importante, la cui declinazione pratica resta un po’ generica nelle formulazioni proposte dalla Caritas.

Ci permettiamo in questa sede di avanzare tre modeste proposte. Da un lato l’introduzione di forme di perequazione fiscale (quoziente famigliare), che toglierebbe dal rischio di povertà soprattutto le famiglie con figli. Dall’altro il trasferimento della gestione dei diritti esigibili (assegni e indennità) dallo Stato alle Regioni, ponendo le premesse per un effettivo controllo nell’utilizzo degli stessi, evitando così un utilizzo a pioggia, incontrollato e incontrollabile, come è in questo momento.

Per ultimo, è bene ricordare come il miglioramento delle performance da parte delle amministrazioni pubbliche in tema di assistenza si può raggiungere solo aumentando la capacità di queste ultime di costruire una rete pubblico/privata di servizi, permettendo così al privato sociale mosso da motivazioni ideali di intervenire in modo più ampio, autonomo ed efficace di quanto non sia in grado di fare ora nella maggioranza dei territori italiani.