La Corte Costituzionale si è pronunciata per l’inammissibilità del conflitto di attribuzione sorto perché, ad avviso del Parlamento, il principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione nel caso Englaro “può essere o un’interpretazione di una legge che non c’è o un precetto normativo. L’articolo 70 della Costituzione vieta alla magistratura di scrivere precetti normativi”.
Pur restando in doverosa attesa di conoscere le motivazioni in base alle quali la Consulta è arrivata a siffatta conclusione, appare comunque possibile un primo commento ipotizzando le possibili ragioni della dichiarata inammissibilità.
La originaria lettura della possibile ampiezza del conflitto di attribuzione, ai sensi dell’art. 134 Cost., ne limitava la portata alla c.d. vindicatio potestatis, secondo cui quel che rilevava era il solo fatto della spettanza della competenza. Il conflitto sorge da un atto di usurpazione di potere attraverso cui un organo svolge una attribuzione spettante all’organo di altro potere e consiste (appunto) in una vindicatio potestatis in quanto entrambi i soggetti rivendicano per sé l’attribuzione ad emanare l’atto. Detta riduttiva lettura è stata tuttavia ben presto superata dalla giurisprudenza della Consulta, che ha chiarito che il conflitto può sorgere in relazione ad un potere (in senso oggettivo) di cui non sia controversa la competenza, ma il cui esercizio è, in qualsiasi modo, idoneo (per il procedimento adottato o per il contenuto dell’atto) a determinare una menomazione della sfera delle attribuzioni costituzionali assegnate ad altro soggetto. In questi casi si assiste, dunque, ad un comportamento di un organo che intralcia il corretto esercizio delle competenze altrui; in tali fattispecie non vi è alcuna rivendicazione di un potere usurpato, bensì contestazione delle modalità in cui un soggetto ha esercitato attribuzioni che sono sue proprie.
Altro punto su cui la Consulta si potrebbe essere espressa circa l’inammissibilità del conflitto proposto si basa sulla definitività della pronuncia della Suprema Corte.
Se è vero che il procedimento Englaro non si è ancora concluso, non può negarsi che sia la Corte di Cassazione l’organo giudiziario competente a dichiarare definitivamente la volontà del potere giudiziario nello stabilire il principio di diritto cui bisogna attenersi. Ed invero, l’art. 384 c.p.c. dispone che (..) la Corte (..)enuncia il principio di diritto al quale il giudice del rinvio deve uniformarsi(..); quel che ha già fatto seguito alla fissazione del principio e quel che ne seguirà mai potrà porre in discussione la statuizione definitiva della Cassazione.
Ed allora, ove si combini quanto sopra evidenziato con la potenzialità di ampiezza dei conflitti di attribuzione tra poteri dello Stato, non appare debole, per sostenere l’inammissibilità, argomentare che il procedimento è ancora in corso?
L’estremo formalismo della tesi, ove su tale base avesse a reggersi la pronuncia della Corte, non potrebbe non colpire, ove si considerino i profili sostanziali della questione: ben può osservarsi come l’art. 37 della legge 11 marzo 1953, n. 87 non richieda affatto la conclusione o l’esistenza di procedimenti tipici, ma solo, come è naturale che sia, che non vi sia spazio per una modifica del quid -quello contestato come invasivo dell’altrui sfera di attribuzione- all’interno dello stesso potere; il che è quanto qui avvenuto, a tacere della più ampia portata del principio di diritto introdotto nell’ordinamento.
Sotto altro versante può invece notarsi come le due Camere, nel proporre il conflitto, in certo qual modo sembrino aver abdicato alla propria sovranità ben potendo intervenire se non anche a definire la materia organicamente -il che non può essere ingiunto al Parlamento, titolare del potere sovrano di decidere se sussiste o meno tale necessità- ad imporre, sempre in via primaria, una diversa lettura del quadro ordinamentale vigente, nazionale e sovranazionale; lettura atta, nel caso, a render inequivoco come, secondo quanto sotteso alla proposizione del conflitto, alcuna disposizione interna ammette che in casi come quello in discorso si possa autorizzare “a staccare la spina”, nel mentre, in contrario, lo ius positum, dall’art. 5 del codice civile all’art. 579 del codice penale, conducono ad una ben diversa soluzione negativa.
Affermare che l’eventuale cattivo esercizio della funzione giudiziaria abbia illegittimamente menomato le attribuzioni costituzionali del Parlamento non può far leva sulla mancanza di una normativa che disciplini l’angoscioso tema; non si può imputare al legislatore una responsabilità sul punto. Siffatta affermazione conduce a lederne le prerogative sovrane: di legiferare o meno, laddove del tutto ovvia è la considerazione che l’una o l’altra scelta ha, o ben può avere, un suo preciso significato.